martedì 24 gennaio 2012

Che c'è di così strano a essere precario?


In due righe
A partire dall'etimo di 'precario' e dalla storia dei suoi significati, acquistano una luce particolare gli usi attuali, congiunti con un uso altrettanto particolare del significato di "tempo determinato" e di "tempo indeterminato". La conclusione è che puzzano parecchio di burocratico le tesi sindacali.


Un po' di storia della parola
La parola 'precario' ha una storia interessante. Antonio Genovesi, nel Settecento: "Il precario non differisce dal commodato, se non per questo, che nel precario non è fissato tempo". Il concetto, di natura giuridica, è dunque quello di una concessione provvisoria, temporanea, revocabile in qualsiasi momento.

Rilevantissimo è che si parla di una concessione. Infatti, 'precario' deriva da prex, precis = preghiera: che si ottiene con preghiere, con suppliche.

In definitiva: concessione temporanea ottenuta con una preghiera. Dove l'aver ottenuto la concessione, è un fatto positivo per chi l'ha richiesta. La concessione è positiva, per quanto temporanea. La provvisorietà è l'aspetto negativo della concessione.

Al di fuori del contesto giuririco, il valore positivo di una cosa precaria resta, benché provvisoria. Precaria, per esempio, è la vita stessa. Ungaretti teme di perderla da un momento all'altro:
Si sta come
d'autunno
su gli alberi
le foglie.

Nella letteratura, sono più spesso i valori negativi a non essere provvisori. Dante:
Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l'etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
Giustizia mosse il mio alto fattore;
fecemi la divina podestate,
la somma sapïenza e 'l primo amore.
Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch'entrate.

Mi pare banalissimo: ciò che è umano e in particolare ciò che è positivo è per definizione precario, non tanto perché venga concesso, quanto perché è destinato a finire. L'umano è provvisorio.


Il significato prevalente attuale
Dal 1980, 'precario' indica un lavoratore che non gode di garanzie di continuità e di stabilità (i primi lavoratori a cui fu applicata furono i docenti non di ruolo). C'è da chiedersi quanti dei significati che abbiamo visto siano rimasti in questo nuovo e oggi prevalente.

Primo significato: concessione. Il lavoro è una concessione? Siccome la nostra è una Repubblica fondata sul lavoro, direi che si possa affermare con certezza che il lavoro non è una concessione, ma un diritto e nello stesso tempo un dovere. Come diritto, ha in sé una positività. Come dovere, dipende: ci sono doveri piacevoli e doveri meno piacevoli. Ma, volendo essere positivi, consideriamo il lavoro un valore positivo, un diritto. Se è un diritto, nessun lavoro proviene da una concessione (ma anche se è un dovere, anzi a maggior ragione se è un dovere).

Secondo significato: provvisorio. Per come ci siamo organizzati, il lavoro non è eterno. Per legge non possiamo lavorare prima di avere raggiunto una certa età, e non possiamo proseguire dopo averne superata un'altra. Il lavoro è dunque in se stesso una condizione provvisoria, nel senso che riguarda una fase della vita.

Regolano il lavoro diversi contratti che, riguardo alla durata, utilizzano due formule: "a tempo determinato" e "a tempo indeterminato". Delle due formule, solo la seconda corrisponde al concetto di "precario". Infatti, se la durata è determinata, non vi è precarietà. Con il "tempo determinato" vi è solo una provvisorietà a scadenza certa. Tuttavia, oggi "precario" significa "a tempo determinato".

Accettiamo pure il nuovo significato, ma notiamo la sua strana evoluzione. Strana a maggior ragione perché in realtà il "tempo indeterminato" non è indeterminato, ma è determinato: significa infatti "fino al raggiungimento dell'età pensionabile". La quale è determinata o determinabile. Dunque, "indeterminato" occupa un po' ambiguamente il posto di un altro aggettivo, per esempio "garantito, continuativo fino alla pensione" (i giuslavoristi potranno proporne altri più adatti).

Naturalmente, non tutti i lavoratori hanno contratti di quel tipo. Ci sono i professionisti, gli autonomi, gli imprenditori, ecc. Anche loro lavorano, e anche per loro il lavoro ha degli aspetti positivi e degli aspetti negativi. La provvisorietà che cosa è per loro? Qualcosa di negativo o di positivo? In assoluto, direi che positiva non è, ma d'altra parte è intrinseca al tipo di lavoro che fanno. Se non entra nessuno nel mio negozio, io non vendo. Dunque il mio lavoro è provvisorio. Ma ho alternative? No, se voglio fare il negoziante. Fare il negoziante è una follia? C'è bisogno di essere degli eroi? E così, fare l'imprenditore, il professionista è scelta temeraria? Non direi. Ci sono milioni di persone che fanno questa scelta, e che vivono gestendo la provvisorietà come una delle tante variabili del loro lavoro.

Inoltre, andrà notato che questi sono, a rigore, i lavoratori che lavorano a tempo strettamente indeterminato: infatti possono, se vogliono e se possono permetterselo, non andare in pensione, o andarci prima dell'età stabilita. Dunque, la provvisorietà è un valore certamente negativo per alcuni, non certamente negativo per altri, positivo per altri ancora. Pavese:
È vissuto un mio nonno, remoto nei tempi,
che si fece truffare da un suo contadino
e allora zappò lui le vigne - d'estate
per vedere un lavoro ben fatto. Così
sono sempre vissuto e ho sempre tenuto
una faccia sicura e pagato di mano.


Il determinismo tragico della signora Camusso
Ma dubito che Susanna Camusso la intenda così quando afferma: “La vera occupazione è quella a tempo indeterminato" (23 gennaio 2012). Si potrebbe dire che la signora Camusso intende:
•    che tutti coloro che lavorano a tempo determinato debbano passare a tempo indeterminato (altrimenti non hanno una "vera occupazione");
•    che autonomi, professionisti, imprenditori non hanno una "vera occupazione".

Ciò che deve preoccupare dell'affermazione della signora Camusso è quel "vera", perché discrimina i lavoratori tra quelli 'falsi' e quelli veri, veri essendo solo coloro che sono assunti a tempo indeterminato. Grazie, a nome di tutti quelli che la signora Camusso esclude.

Nella testa della signora Camusso (e di chi la usa come lei o usa quella della signora Camusso invece della propria), mi pare che domini una visione tragica del lavoro, e forse anche della vita, una visione che dà per scontato che chi lavora sia subordinato, dipendente, e che questa condizione, per giunta, debba essere eterna, nei limiti in cui eterna è la condizione del lavoro, cioè fino alla pensione. Se fossi bravo in filosofia oserei parlare di determinismo, e aggiungerei di un determinismo gnucco, ottuso, ostinato, non negoziabile. Roba da Cesare Lombroso.

La tragicità del pensiero della Camusso è pronipote delle più che secolari battaglie sindacali, e figlia della mentalità burocratica che attanaglia questo paese da almeno quaranta anni e che ha tra i suoi tremendi effetti il seguente: gran parte degli italiani desidera sopra ogni altra cosa la protezione, la garanzia, il posto fisso, possibilmente pubblico.

Questa concezione del lavoro dà per scontato che il lavoro sia un diritto (dare per scontati i diritti è molto pericoloso), e tematizza piuttosto che divenga un diritto la garanzia della durata. Ma la richiesta di avere tutti dipendenti a tempo indeterminato è una supplica (se il lavoro è un diritto, non è un obbligo assumere in quel modo). E la supplica reintroduce il concetto di precario: il lavoro a tempo indeterminato vagheggiato dalla Camusso è precario secondo la prima definizione del termine: ottenuto con una supplica.

Chi ha voglia di leggere per intero il Documento unitario approvato dalle segreterie di CGIL, CISL e UIL "Per il lavoro, per la crescita, per l'equità sociale e fiscale" non troverà una sola parola che non sia una richiesta ad altri affinché facciano qualcosa. Non qualsiasi cosa: questo sì, ma e così; questo no, altrimenti. Il fiore all'occhiello di queste suppliche è la difesa intransigente della pubblica amministrazione, che spiega da sé molte cose, prima tra tutte le responsabilità che il sindacato ha nello sfascio dell'amministrazione pubblica, a partire dalla scuola e dall'università. Una sia pur eufemistica autocritica? Un sia pur corto passo indietro?

La visione camussiana propone un atteggiamento nei confronti della vita dominato dalla paura, dalla paura di se stessi, degli altri, del mondo, di tutto. Una visione che considera l'uomo moderno afflitto dal sacro timore del sacro, cioè dal potere di un mondo inconoscibile, che ci stermina con uno starnuto.

Visioni come quella della signora Camusso e dei suoi sodali sono lontanissime dalle antiche battaglie del sindacalismo, e sono intrinseche piuttosto alla mentalità burocratica, la mentalità che annulla il singolo in un meccanismo che, come ho scritto in un altro articolo, divora a proprio esclusivo e cieco vantaggio tutte le forze positive di una comunità.

La visione del lavoro come di una funzione burocratica è uno dei più pesanti macigni culturali che abbiamo, una delle cause dello stallo in cui viviamo. Agitare dunque certi argomenti in questo modo significa non so quanto deliberatamente porsi, in primo luogo, contro tutti i lavoratori che non rientrano in questa visione. Ma significa, in secondo luogo, porsi anche contro i lavoratori che rientrano in questa visione, perché gli si prefigura una terra promessa, dando un po' troppo per scontato che ci sia; perché alla terra promessa si arriverà dando fiducia al grande capo; perché li si convince che da soli non ce la possono fare.

Che tristezza questa tragedia.