Da amministrazione a
burocrazia
Jared Diamond ha spiegato benissimo in Armi, acciaio e malattie l'origine dell'amministrazione. Sintetizzo,
con qualche inevitabile banalizzazione: l'amministrazione nasce quando le società
antiche si sviluppano abbastanza da avere bisogno di un apparato che fornisca i
servizi necessari a un ulteriore sviluppo della società. Contabili, legali,
sanitari ecc. non contribuiscono direttamente al prodotto, ma servono a
produrlo e a produrne di più.
In questa logica, che è logica, chi produce è disposto a
sostenere il costo, direttamente improduttivo, dell'amministrazione perché
comprende che è un investimento, perché conviene.
Il termine burocrazia non ha niente a che vedere con questo
rapporto.
Il termine burocrazia nasce nella seconda metà del Settecento e ha nel suo stesso etimo le sue ragioni: potere dell'amministrazione, influenza politica degli amministrativi. La burocrazia indica lo stadio che l'amministrazione ha raggiunto quando, invece di essere al servizio della produzione, è ormai al servizio di se stessa, cioè, in altri termini, soggioga la produzione, la ricatta.
Il termine burocrazia nasce nella seconda metà del Settecento e ha nel suo stesso etimo le sue ragioni: potere dell'amministrazione, influenza politica degli amministrativi. La burocrazia indica lo stadio che l'amministrazione ha raggiunto quando, invece di essere al servizio della produzione, è ormai al servizio di se stessa, cioè, in altri termini, soggioga la produzione, la ricatta.
Espressione diretta del potere del sovrano, la burocrazia si
mangia più prima che poi pure il sovrano, che non riesce a governarne la tecnicità, di cui ha bisogno per gestire
la complessità crescente della vita sociale.
Dominando a monte (il sovrano) e a valle (la produzione), la
burocrazia diviene il motore immobile dello stato moderno. Astratta, tecnica,
impersonale, impolitica, amorale, disetica: la burocrazia esiste e si riproduce
ermafroditicamente, formatta i suoi addetti e impone le sue leggi ai suoi
padroni e ai suoi finanziatori. L'apparato strumentale è divenuto ragion
d'essere dello stato produttivo: il servo che fa la spesa minaccia il padrone
di farlo digiunare.
Ma c'è, forse, di peggio: il meccanismo burocratico funziona
indipendentemente da chi lo aziona, genera automaticamente la fase successiva,
si giustifica in se stesso salvando da responsabilità individuali i suoi addetti.
A una catena di montaggio di questo tipo si devono alcuni aspetti dell'Olocausto,
come ha mostrato Hannah Arendt.
Il trionfo della
burocrazia coincide, però, con la società dei consumi. L'aumento dei volumi
del commercio esige un aumento della contabilità, richiede in fretta una
generazione di abilitati alla scrittura e al conteggio, che prima operava
manualmente nella produzione. E così, da un lato l'amministrazione pubblica si
è estesa, dall'altro ha richiesto anche al settore privato di dedicare energie
e persone alla gestione delle sue esigenze, che non sempre coincidono con le
esigenze produttive (per le quali le imprese hanno una loro propria
amministrazione, in gran parte necessaria).
La mentalità
Lo sviluppo culturale ed economico dell'Italia degli anni
Cinquanta e Sessanta spiega in parte e in parte si spiega con la necessità di impiegare
nell'amministrazione pubblica e privata, un numero di addetti non disponibile
sul mercato.
Per reclutarli nel pubblico, ecco i concorsi, cioè meccanismi concepiti per garantire la trasparenza.
Niente di strano: è coerente con l'impersonalità burocratica e con la necessità
di dimostrare di essere un servizio. Per trattenerli e renderli fedeli, ecco la
certezza eterna del posto di lavoro,
che è servita anche come precedente per lo sviluppo, negli ultimi quaranta
anni, della legislazione del lavoro anche nel settore privato.
È certamente grande responsabilità dello sviluppo
burocratico la diffusione della mentalità
del posto fisso. Una delle tantissime ragioni del ritardo della nostra cultura
d'impresa sta lì, in questa mentalità. Una mentalità fondata sulla paura, sulla
diffidenza, su una lunga storia di povertà e di mancanza di libertà.
Il gravissimo problema irrisolto, anzi neppure tematizzato, dell'Italia
degli ultimi quaranta anni è tutto qui: l'Italia ha perseguito per decenni l'educazione di generazioni intere
all'aspirazione alla sicurezza garantita dall'ingresso
nell'amministrazione, pubblica o privata non fa differenza.
In questa forsennata opera di travisamento hanno contribuito
in modo decisivo, e sguazzando nel guano, la cultura cattolica e la cultura
marxista. La prima, satanizzando il denaro; la seconda, di sponda e a
rimorchio, satanizzando chi produce denaro. La prima, decisamente più avveduta,
prevede collaudati meccanismi di deroga (tecnicamente: senso di colpa e
relativo perdono); la seconda, decisamente meno esperta, ha escogitato meccanismi
di interdizione e di rivendicazione (sarà un caso che il marxismo è stato
teorizzato da un ebreo e realizzato in un paese ortodosso?).
Il costo della politica
Oggi l'amministrazione, pubblica e privata, è talmente ampia
da soggiogare i suoi protettori, che infatti non sanno più come fare a
disfarsene, anzi - che dico? - a limitarne la crescita esponenziale.
Questo è il costo della politica, questo è il costo che non
ci possiamo più permettere. Non è certo il denaro percepito dai politici, anche
se, guarda caso, è proprio quello, il satanico denaro, a essere messo sotto
accusa (per carità, diminuiamo pure gli stipendi dei politici ed eliminiamo
pure i loro vitalizi: non è certo questo che mi interessa).
Il costo che non ci possiamo più permettere è il costo del patto tra i decisori e i milioni
di cittadini che devono o credono di dovere la loro sopravvivenza a quel
patto. Chi ricatta chi?
Temo che la resa dei conti stia per arrivare. Lo temo non
tanto per i conti che dovremo rendere quanto per la capacità di riprenderci.
Questa capacità, infatti, non vedo su che cosa si debba basare se non sulla
rinuncia alla protezione, al mito della protezione, al mito del sussidio, al
mito del finanziamento, al mito dell'intervento pubblico che deve garantire
questo e quello e persino quell'altro.
Una partita da
vincere
Nel frattempo, stiamo giocando la partita. Giocata così,
cioè nel tentativo di salvare la capra e i cavoli, è persa in partenza. Ma non
la perderemo. La giocheremo diversamente e la vinceremo. Diversamente
significa, tra le tante cose, che dobbiamo svezzarci dall'allattamento burocratico,
dall'aspirazione a essere accolti nel gran ventre protettivo di qualcuno al
quale attribuiamo il potere magico di non crollare, e di sorreggerci. Il nostro
debito è lì a ricordarci che ci siamo coccolati un po' troppo.