mercoledì 8 luglio 2015

Le tecnologie dell'io (8): "Noi abbiamo qualcosa da dirci"

L'uscita di Umberto Eco sugli "imbecilli" a cui le tecnologie dànno diritto di parola (video) ha fatto notizia mica per l'idea, che circolava già, ma perché l'ha detta Eco e soprattutto perché ha usato il termine "imbecilli". Nella nomenclatura di Eco, comunque, gli imbecilli non vanno ad aggiungersi agli apocalittici e agli integrati, e nemmeno ne costituiscono un di cui: il destinatario del discorso di Eco era e resta limitato alla comunità di coloro che, in questo articolo, io definisco i titolari accreditati e riconosciuti dei contenuti, cioè, per usare un termine più comune ma a me insopportabile, agli intellettuali.

Ho assistito a diverse reazioni all'uscita di Eco, nelle tecnologie dell'io. Per quanto abbia visto, il 'popolo del web' non l'ha presa bene, ma, reagendo polemicamente, ha ammesso di essersi riconosciuto tra gli "imbecilli".

Continua dunque il muro contro muro, tra titolari accreditati e riconosciuti dei contenuti e abitanti delle tecnologie dell'io. I primi ritengono che i secondi non abbiano niente di importante da dire. I secondi ritengono di essere esclusi a torto dall'opportunità di comunicare, oppure, addirittura, ritengono che la credibilità riconosciuta e accreditata sia fasulla

Per conto mio, come sa chi ha avuto la pazienza di leggere gli articoli precedenti di questa serie, penso che il problema sia un altro: la cultura istituzionale non ha ancora individuato le modalità per mettersi in relazione positiva con le tecnologie dell'io (ne parlo meglio qui).

"Vengo anch'io! No, tu no!"

Il sistema di selezione delle competenze intellettuali ha certamente molte disfuzioni: ma sono più gli "imbecilli" che - poniamo - insegnano all'università o pubblicano un romanzo presso un grande editore che non i geni estromessi, tacitati, affidati al giudizio più sereno della posterità.

Il rapporto numerico tra chi HA qualcosa da dire e chi CREDE di avere qualcosa da dire non muta nel tempo, o muta poco (se muta, è grazie a un buon sistema educativo; dunque, non muta in Italia). L'unica grande differenza è che chi crede di avere qualcosa da dire è che, oggi, può scriverlo e diffonderlo in rete a costo zero.

Come ho già scritto negli articoli precedenti, la quantità di ii che accedono alla pubblicazione pone il tema della forza della maggioranza, sicché una cretinata supportata da migliaia di persone potrebbe entrare in conflitto con l'inevitabile minoranza che ha gli strumenti per elaborare e poi valutare e infine discutere un qualsiasi argomento che richieda un minimo scientifico per essere elaborato, valutato e discusso.

"Io ho qualcosa da dirvi"

Questa situazione è irreversibile e potenzialmente pericolosa per lo statuto futuro della cultura. Di certo, l'atteggiamento scortese e snobistico di Eco e di altri titolari dei contenuti nei confronti dei loro potenziali lettori e in ogni caso concittadini non servono a nulla se non a dimostrare agli abitanti delle tecnologie dell'io che la cultura istituzionale non sta capendo ciò di cui parla. Questo atteggiamento è figlio di un antico approccio alla comunicazione, quello basato sul presupposto "Io ho qualcosa da dirvi".

Dato il presupposto, tutto ciò che il titolare riconosciuto e accreditato di un contenuto può aspettarsi dal 'popolo' è che il popolo legga, si istruisca e la smetta di dire sciocchezze o, meglio, taccia addirittura. Siccome il titolare non vede realizzarsi nelle tecnologie dell'io ciò che si aspetta, allora passa a sentenziare che in Italia si legge poco e che quel poco è pessimo, come se fosse una gran novità o un problema di cui potrebbe proporre una buona soluzione (e vai con i convegni, gli appelli a salvare l'editoria e altre toppe di retroguardia).

Le fonti di quel che si legge

In realtà, oltre ad aver alimentato la scrittura, le tecnologie dell'io alimentano anche la lettura. Non mi risulta che sia stato commentato positivamente questo secondo aspetto. In se stesso, infatti, è positivo. Che cosa c'è di negativo? Per esempio che ci sono tante sciocchezze in giro (ma non è che un libro scritto da un titolare riconosciuto e accreditato sia per ciò stesso roba buona).

Un argomento molto più serio, che è stato già segnalato mi pare anche da Eco, è che nel gurgite vasto dell'on line è molto difficile verificare le fonti di chi scrive. Ammesso che le abbia e che siano affidabili. Ma la verifica delle fonti è operazione difficilotta e faticosetta, tanto che nemmeno i giornalisti e i professori universitari potrebbero giurare che le loro rispettive categorie la eseguano sistematicamente, e bene. Dunque, questo argomento dovrebbe essere usato con molta cautela, anzi direi che sarebbe meglio non usarlo, almeno fino a quando coloro che devono verificare professionalmente le fonti e coloro che devono insegnare al popolo a verificare le fonti non abbiano ottenuto risultati migliori, tali per cui il problema sarà molto circoscritto e non varrà a bollare di incapacità a intendere la stragrande maggioranza della popolazione.

La quale maggioranza, invece di essere etichettata come ignorante o peggio, andrà piuttosto difesa in sede penale, dal momento che esiste il reato di abuso della credulità popolare (art. 661 del Codice Penale) che è in capo non al credulone, bensì a colui che ne abusa:

"Chiunque, pubblicamente, cerca con qualsiasi impostura, anche gratuitamente, di abusare della credulità popolare è punito, se dal fatto può derivare un turbamento dell'ordine pubblico, con l'arresto fino a tre mesi o con l'ammenda fino a milletrentadue euro."

Ma è del tutto evidente che, per questa strada, il discorso non può procedere: l'approccio "Io ho qualcosa da dirvi" è intrinsecamente avulso dalle tecnologie dell'io, e rimanda continuamente a monte, come un disco di vinile graffiato. Se vogliamo tentare di spiegarci le tecnologie dell'io, e la motivazione di molte persone a commentare quello che leggono e hanno capito, bisogna rinunciare agli argomenti di comodo e piuttosto, come dice il mio macellaio, mettere le mani nella bestia.

"Noi abbiamo qualcosa da dirci"

Per quanto zuccone, pluribocciato, sfaccendato e superbo, l'abitante delle tecnologie dell'io non legge a caso e non scrive di tutto. Le persone sono mosse da interessi, per quanto di poco o nullo momento intellettuale, e trascurabili ai fini della storia dell'umanità. Questi interessi le portano in contatto con coloro che condividono gli stessi interessi. Da questo incontro, nascono le conversazioni.

Fino a questo momento, non mi pare che sia stato notato che le tecnologie dell'io rendono possibile un modello comunicativo o, meglio, conversazionale basato sull'approccio "noi abbiamo qualcosa da dirci".

Nelle conversazioni, per esempio in Facebook, quando sono felici, a un tema ben posto corrispondono commenti appropriati, che aggiungono informazione, conoscenza e lasciano nei partecipanti la sensazione di aver compiuto qualcosa di utile, di interessante, di essere - diciamo - migliorati, grazie al contributo altrui e alla propria partecipazione.

Come si sa, le conversazioni, in presenza o virtuali, riescono bene quando i partecipanti sono cortesi. 
La cortesia, che si sente quando non c'è, e che è la premessa di ogni buona conversazione, non ha quasi niente a che fare con il contenuto di ciò che uno dice, ma è piuttosto in relazione con l'accettazione dello scopo della discussione, a cui ogni io si sottomette nell'interesse conoscitivo comune.

Il quale scopo deve essere chiaro e condiviso, ma soprattutto chiaro, esplicitato. Quando lo scopo non è esplicitato da chi apre un gruppo o pubblica un post, la conversazione può facilmente degenerare, procedere a vanvera, legittimare persino l'insulto (approfondimento).

Se la cortesia è la premessa e lo scopo è la condizione di una buona conversazione, il contenuto diventa irrilevante per l'analisi delle tecnologie dell'io. Infatti, chiunque ha il diritto di intrattenere conversazioni su qualsiasi argomento con chi gli pare. Se il contenuto diventa irrilevante, è chiaro che l'analisi delle tecnologie dell'io deve spostarsi dove le tecnologie dell'io dicono qualcosa che non si trova al di fuori delle tecnologie dell'io.

Le figlie migliori di Grice e Austin

Le tecnologie dell'io, diversamente dalle altre tecnologie della comunicazione scritta, mettono le persone in relazione diretta e simultanea, e mostrano le modalità di questa relazione (ne parlo approfonditamente qui).

In un gruppo, le persone possono benissimo non conoscersi. Si conoscono discutendo e imparano ad apprezzarsi (o a detestarsi) per quello che dicono e soprattutto per come lo dicono. Pochi vanno a controllare chi è chi, anche perché pochissimi sono quelli di cui sono disponibili informazioni pubbliche. In sintesi: la credibilità è contendibile, e viene concessa a chi sa contribuire in modo positivo rispetto allo scopo.

Le tecnologie dell'io sono dunque le figlie migliori di Grice e Austin, perché sono il luogo dove si realizzano scopi attraverso conversazioni e dove la capacità relazionale può vincerla sulla qualità del contenuto, dico di un singolo contenuto, perché è il valore superiore dello scopo comune a decretare la qualità di un contenuto. E, come in tutte le buone conversazioni, il contenuto è la risultante di tutti i contributi.

Per tali caratteristiche, le tecnologie dell'io sono state adottate anche come modello organizzativo, soprattutto aziendale, soprattutto altrove che non in Italia, dove lavorare in modo organigrammatico è ancora ben radicato nella mentalità, soprattutto nelle pubbliche amministrazioni. Tuttavia, molte organizzazioni hanno compreso o stanno comprendendo che le tecnologie dell'io consentono di superare alcuni limiti dei modelli organizzativi tradizionali:
  • sono inclusive del contributo di tutti coloro che hanno qualcosa da dire rispetto a uno scopo, e dunque valorizzano anche le competenze minori o sconosciute;
  • richiedono a tutti i partecipanti di contribuire in modo cortese e costruttivo, il che migliora il clima e permette di misurarlo senza ricorrere alle analisi di clima;
  • mettono in relazione persone che non si conoscono, che non si sarebbero conosciute;
  • stabiliscono una relazione diretta e non falsa (o falsa, ma smascherabile) con gli interlocutori esterni.
Il modello "Noi abbiamo qualcosa da dirci" è dunque valido pressoché in ogni circostanza: scambi privati, dibattito politico, processi organizzativi e così via. Pone al centro uno scopo comune, la cui assenza è tipica dell'approccio "Io ho qualcosa da dirvi". Forse è proprio questo su cui i non imbecilli potrebbero cominciare a fare qualche riflessione, magari con lo scopo comune (a tutti) di preservare il predominio della cultura sulla società. Che se, fino ad oggi, era consistito nell'insegnare a leggere e a scrivere, a rispettare le leggi ecc., d'ora in poi mi pare che richieda che la cultura si faccia carico della realtà virtuale.


Articoli correlati
Le tecnologie dell'io:  1, 2, 3, 4, 5, 6 , 7














Nessun commento:

Posta un commento