... Arrivai a Milocca a sera chiusa.
Non vidi nulla, perché secondo il calendario doveva esserci la luna, quella sera;
la luna non c’era; i lampioni a petrolio non erano stati accesi; e dunque non ci si vedeva neanche a
tirar moccoli.
... Fortuna ch’era bujo! Quel ch’occhio non vede, cuore non crede. Quando però il
giorno dopo vidi quell’altra strada lì restai basito, non tanto perché c’ero passato, quanto per il
pensiero che se Dio misericordioso aveva permesso che non ci lasciassi la pelle, chi sa a quali
terribili prove vuoi dire che m’ha predestinato.
Fu così forte l’impressione che mi fece quella strada e poi l’aspetto di quel
paese – squallido, nudo in desolato abbandono, come dopo un saccheggio o un orrendo cataclisma;
senza vie, senz’acqua, senza luce – che la villa dell’amico mio e l’accoglienza ch’egli mi fece con
tutti i suoi e l’ammirazione del suocero e via dicendo mi parvero rose, a confronto.
– Ma come! – dissi al Tucci. – Questo è il paese ricco e felice, tra i piú ricchi
e felici del mondo?
E Tucci, socchiudendo gli occhi:
– Questo. E te ne accorgerai... La felicità nostra è
fondata nella scienza piú occhialuta che abbia mai soccorso la povera, industre umanità. Oh sì,
staremmo freschi veramente se fossero ignoranti i nostri amministratori! Tu m insegni. Che
salvaguardia può esser piú l’ignoranza in tempi come i nostri? Promettimi che non mi domanderai piú
nulla fino a questa sera. Ti farò assistere a una seduta del nostro Consiglio comunale. Appunto
questa sera si discuterà una questione di capitalissima importanza: l’illuminazione del paese. Tu
avrai dalle cose stesse che vedrai e sentirai la dimostrazione piú chiara e piú convincente di
quanto ti ho detto. Intanto, la ricchezza nostra è nelle meravigliose cascate di Chiarenza che ti
farò vedere, e nelle terre che sono, grazie a Dio, così fertili, che ci dan tre raccolti all’anno.
Ora vedrai; vieni con me.
...Andammo insieme al Municipio, per la seduta del
Consiglio comunale.
... Tucci fermò per la scala un tozzo omacciotto aggrondato, barbuto, rossigno, che,
evidentemente, non voleva esser distratto dai pensieri che lo gonfiavano.
– Zagardi, ti presento l’amico mio...
E disse il mio nome. Quegli si voltò di mala grazia e rispose appena, con un
grugnito, alla presentazione. Poi mi domandò a bruciapelo.
– Scusi, com’è illuminata la sua città? – A luce elettrica, – risposi.
E lui, cupo:
– La compiango. Sentirà stasera. Scusi, ho fretta.
E via, a balzi, per il resto della scala.
– Sentirai, – mi ripeté Tucci, stringendomi il braccio. – È formidabile!
Eloquenza mordace, irruente. Sentirai!
– – E intanto ha il coraggio di compiangermi?
– Avrà le sue ragioni. Su, su, affrettiamoci, o non troveremo piú posto.
La mastra sala, la Sala del Consiglio, rischiarata da altri lumini a cui
quelli della scala avevano ben poco da invidiare, pareva un aula di pretura delle piú sudice e
polverose I banchi dei consiglieri e le poltrone di cuojo erano della più venerabile antichità; ma,
a considerarli bene nelle loro relazioni con quelli che tra poco avrebbero preso posto in essi e che
ora passeggiavano per la sala, assorti, taciturni, ispidi come tanti cocomerelli selvatici pronti a
schizzare a un minimo urto il loro sugo purgativo, pareva che non per gli anni si fossero logorati
così, ma per la cura cupamente austera del pubblico bene, per i pensieri roditori che in loro,
naturalmente, erano divenuti tarli.
Tucci mi mostrò e mi nominò a dito i consiglieri piú autorevoli: l’Ansatti tra i
giovani, rivale dello Zagardi, tozzo e barbuto anche lui, ma bruno; il Colacci, vecchio gigantesco,
calvo, sbarbato, dalla pinguedine floscia; il Maganza, bell’uomo, militarmente impostato, che
guardava tutti con rigidezza sdegnosa. Ma ecco, ecco il sindaco in ritardo. Quello? Sì, Anselmo
Placci. Tondo, biondo, rubicondo: quel sindaco stonava.
– Non stona, vedrai, – mi disse Tucci. – È il sindaco che ci vuole.
Nessuno lo salutava; solo il Colacci gigantesco gli si accostò per battergli
forte la mano su la spalla. Egli sorrise, corse a prender posto sul suo seggio, asciugandosi il
sudore, e sonò il campanello, mentre il capo – usciere gli porgeva la nota dei consiglieri presenti.
Non mancava nessuno.
Il segretario, senza aspettar l’ordine, aveva preso a leggere il verbale della
seduta precedente, che doveva essere redatto con la piú scrupolosa diligenza, perché i consiglieri
che lo ascoltavano accigliati approvavano di tratto in tratto col capo, e in fine non trovarono
nulla da ridire.
Prestai ascolto anch’io a quel verbale, volgendomi ogni tanto, smarrito e
sgomento, a guardare l’amico Tucci. A proposito delle strade di Milocca, si parlava come niente di
Londra, di Parigi, di Berlino, di New York, di Chicago, in quel verbale, e saltavan fuori nomi
d’illustri scienziati d’ogni nazione e calcoli complicatissimi e astrusissime disquisizioni, per cui
i capelli del magro, pallido segretario mi pareva si ritraessero verso la nuca, man mano ch’egli
leggeva, e che la fronte gli crescesse mostruosamente. Intanto due o tre uscieri, zitti zitti, in
punta di piedi, recavano a questo e a quel banco pile enormi di libri e grossi incartamenti.
– Nessuno ha da fare osservazioni al verbale? – domandò alla fine il sindaco.
stropicciandosi le mani paffutelle e guardando in giro. – Allora s’intende approvato. L’ordine del
giorno reca: – Discussione del progetto presentato dalla Giunta per un impianto
idro–termo–elettrico nel Comune di Milocca. – Signori Consiglieri! Voi conoscete già questo
progetto e avete avuto tutto il tempo d’esaminarlo e di studiarlo in ogni sua parte. Prima di aprire
la discussione, consentite che io, anche a nome dei colleghi della Giunta, dichiari che noi abbiamo
fatto di tutto per risolvere nel minor tempo e nel modo che ci è sembrato piú conveniente, sia per
il decoro e per il vantaggio del paese, sia rispetto alle condizioni economiche del nostro Comune,
il gravissimo problema dell’illuminazione. Aspettiamo dunque fiduciosi e sereni il vostro giudizio,
che sarà equo certamente; e vi promettiamo fin d’ora, che accoglieremo ben volentieri tutti quei
consigli, tutte quelle modificazioni che a voi piacerà di proporre, ispirandovi come noi al bene e
alla prosperità del nostro paese.
Nessun segno d’approvazione.
E si levò prima a parlare il consigliere Maganza, quello dall’impastatura
militaresca. Premise che sarebbe stato brevissimo, al solito suo. Tanto piú che per distruggere e
atterrare quel fantastico edificio di cartapesta (sic), ch’era il progetto della Giunta, poche
parole sarebbero bastate. Poche parole e qualche cifra.
E punto per punto il consigliere Maganza si mise a criticare il progetto, con
straordinaria lucidità d’idee e parola acuta, incisiva: il complesso dei lavori e delle spese; la
sanzione che si doveva dare per l’acquisto della concessione dell’acqua di Chiarenza; i rischi
gravissimi a cui sarebbe andato incontro il Municipio: il rischio della costruzione e il rischio
dell’esercizio; l’insufficienza della somma preventivata, che saltava agli occhi di tutti coloro che
avevano fatto impianti meccanici e sapevano come fosse impossibile contener le spese nei limiti dei
preventivi, specialmente quando questi preventivi erano fatti sopra progetti di massima e con
l’evidente proposito di fare apparir piccola la spesa; il carattere impegnativo che aveva l’offerta
dell’accollatario, fermi restando i dati su i quali l’offerta medesima era fondata; dati che per
forza il Consiglio avrebbe dovuto alterare con varianti e aggiunte ai lavori idraulici, con varianti
e aggiunte Gl’impianti meccanici; e ciò oltre a tutti i casi imprevisti e imprevedibili, di forza
maggiore, e a tutte le accidentalità, incagli, intoppi, che certamente non sarebbero mancati. Come
poi fare appunti particolareggiati senza avere a disposizione i disegni d’esecuzione e i dati
necessari? Eppure due enormi lacune apparivano già evidentissime nel progetto: nessuna somma per le
spese generali, mentre ognuno comprendeva che non si potevano eseguire lavori così grandiosi, così
estesi, così varii e delicati, senza gravi spese di direzione e di sorveglianza e spese legali e
amministrative; e l’altra lacuna ben piú vasta e profonda: la riserva termica che in principio la
Giunta sosteneva non necessaria e che poi finalmente ammetteva.
E qui il consigliere Maganza, con l’ajuto dei libri che gli avevano recati gli
uscieri, si sprofondò in una intricatissima, minuziosa confutazione scientifica, parlando della
forza dei torrenti e delle cascate e di prese e di canali e di condotte forzate e di macchinarii e
di condotte elettriche e delle relazioni da stabilire tra riserva termica e forza idraulica, oltre
la riserva degli accumulatori; citando la Società Edison di Milano e l’Alta Italia
di Torino e ciò che per simili impianti s’era fatto a Vienna, a Pietroburgo, a Berlino.
Eran passate circa due ore e il brevissimo discorso non accennava ancora di
finire. Il pubblico stipato pendeva dalle labbra dell’oratore, per nulla oppresso da tanta copia
d’irta, spaventevole erudizione. Io quasi non tiravo piú fiato; eppure lo stupore mi teneva lì, con
gli occhi sbarrati e a bocca aperta. Ma alla fine, il Maganza, mentre il pubblico s’agitava, non già
per sollievo, anzi per viva ammirazione, concluse così:
– La dura esperienza in altre città, o signori, ha purtroppo dimostrato che
gl’impianti idro–termo–elettrici cono della massima difficoltà e serbano dolorosissime sorprese.
Nessuno può far miracoli, e tanto meno, su la base d’un così fatto progetto, potrà farne il
Municipio di Milocca!
Scoppiarono frenetici applausi e il consigliere Ansatti si precipitò dal suo
banco ad abbracciare e baciare il Maganza; poi, rivolto al pubblico e ritornando man mano al suo
posto, prese a gridare tutto infocato, con violenti gesti:
– Si osa proporre, o signori, oggi, oggi, come se noi ci trovassimo dieci o venti
anni addietro, al tempo di Galileo Ferraris, si osa proporre un impianto idro–termoelettrico a
Milocca! Ah come mi metterei a ridere, se potesse parermi uno scherzo! Ma coi denari dei
contribuenti, o signori della Giunta, non è lecito scherzare, ed io non rido, io m’infiammo anzi di
sdegno! Un impianto idro–termo–elettrico a Milocca, quando già spunta su l’orizzonte scientifico la
gloria consacrata di Pictet? Non vi farò il torto di credere, o signori, che voi ignoriate chi sia
l’illustre professor Pictet, colui che con un processo di produzione economica dell’ossigeno
industriale prepara una memoranda rivoluzione nel mondo della scienza, della tecnica e
dell’industria, una rivoluzione che sconvolgerà tutto il macchinismo della vita moderna, sostituendo
questo nuovo elemento di luce e di calore a tutti quelli, di potenza molto minore, che finora sono
in uso!
E con questo tono e con crescente fuoco, il consigliere Ansatti spiegò al
pubblico attonito e affascinato la scoperta del Pictet, e come col sistema da lui inventato le
fiamme delle reticelle Auer sarebbero arrivate alle altissime temperature di tremila gradi,
aumentando di ben venti volte la loro luminosità; e come la luce così ottenuta sarebbe stata,
a differenza di tutte le altre, molto simile a quella solare; e che se poi, al posto del gas, si
fosse messa un’altra miscela derivante da un trattamento del carbon fossile col vapore acqueo e
l’ossigeno industriale, il potere calorifico sarebbe aumentato di altre sei volte!
Mentr’egli spiegava questi prodigi, il consigliere Zagardi, suo rivale, quello
che mi aveva compianto per la scala, sogghignava sotto sotto. L’Ansatti se ne accorse e gli gridò:
– C’è poco da sogghignare, collega Zagardi! Dico e sostengo di altre sei volte!
Ci ho qui i libri; te lo dimostrerò!
E glielo dimostrò, difatti; e alla fine, balzando da quella terribile
dimostrazione piú vivo e piú infocato di prima, concluse, rivolto alla Giunta:
– Ora in quali condizioni, o ciechi amministratori, in quali condizioni
d’inferiorità si troverebbero il Municipio e il paese di Milocca, coi loro miserabili 1000 cavalli
di forza elettrica, quando questo enorme rivolgimento sarà nell’industria e nella vita un fatto
compiuto?
– Scusami, – diss’io piano all’amico Tucci, mentre gli applausi scrosciavano
nella sala con tale impeto che il tetto pareva ne dovesse subissare, – levami un dubbio: non è
intanto al bujo il paese di Milocca?
Ma Tucci non volle rispondermi:
Zitto! Zitto! Ecco che parla Zagardi! Sta’ a sentire!
Il tozzo omacciotto barbuto s’era infatti levato, col sogghigno ancora su le
labbra, torcendosi sul mento, con gesto dispettoso, il rosso pelo ricciuto.
– Ho sogghignato, – disse, – e sogghigno, collega Ansatti, nel vederti così tutto
fiammante d’ossigeno industriale, paladino caloroso del professor Pictet! Ho sogghignato e sogghigno
collega Ansatti non tanto di sdegno quanto di dolore nel vedere come tu, così accorto, tu, giovane e
vigile bracco della scienza, ti sia fermato alla nuova scoperta di quel professor francese e,
abbagliato dalla luce venti volte cresciuta delle reticelle Auer, non abbia veduto un piú recente
sistema d’illuminazione che il Municipio di Parigi va sperimentando per farne poi l’applicazione
generale nella ville lumière. Io dico il Lusol, collega Ansatti, e non scioglierò inni
in gloria della nuova scoperta, perché non con gl’inni si fanno le rivoluzioni nel campo della
scienza, della tecnica e dell’industria, ma con calcoli riposati e rigorosi.
E qui lo Zagardi, non smettendo mai di tormentarsi sul mento la barbetta
rossigna, piano piano, col suo fare mordace e dispettoso, parlò della semplicità meravigliosa delle
lampade a lusol, nelle quali il calore di combustione dello stoppino e la capillarità
bastavano a determinare senz’alcun meccanismo l’ascesa del liquido illuminante, la sua
vaporizzazione e la sua mescolanza alla forte proporzione d’aria che rendeva la fiamma piú viva e
sfavillante di quella ottenuta con qualunque altro sistema. E per un miserabilissimo centesimo si
sarebbe ormai avuta la stessa luce che si aveva a quattro o cinque centesimi col vile petrolio, a
otto o dieci con l’ambiziosa elettricità, a quindici o venti col pacifico olio. E il Lusol
non richiedeva né costruzioni di officine, né impianti, né canalizzazioni. Non aveva egli dunque
ragione di sogghignare?
O fosse per la tempesta suscitata nella poca aria della sala dalle deliranti
acclamazioni e dai battimani del pubblico, o fosse per mancanza d’alimento, essendosi la seduta già
protratta oltre ogni previsione, il fatto è che, alla fine del discorso dello Zagardi, i lumi si
abbassarono di tanto, che si era quasi al bujo quando sorse per ultimo a parlare il Colacci, il
vecchio gigantesco dalla pinguedine floscia. Ma ecco: prima un usciere e poi un altro e poi un terzo
entrarono come fantasmi nell’aula, reggendo ciascuno una candela stearica. L’aspettazione nel
pubblico era intensa: indimenticabile la scena che offriva quella tetra sala affollata nella
semioscurità, con quelle tre candele accese presso il vecchio gigantesco che con ampli gesti e voce
tonante mellificava la Scienza, feconda madre di luce inestinguibile, produttrice inesauribile di
sempre nuove energie e di piú splendida vita.
Dopo le scoperte mirabili di cui avevano parlato l’Ansatti e lo Zagardi, era piú
possibile sostenere l’impianto idro–termo–elettrico proposto dalla Giunta? Che figura avrebbe fatto
il paese di Milocca illuminato soltanto a luce elettrica? Questo era il tempo delle grandi scoperte,
e ogni amministrazione che avesse veramente a cuore il decoro del paese e il bene dei cittadini,
doveva stare in guardia dalle sorprese continue della Scienza. Il consigliere Colacci, pertanto,
sicuro d’interpretare i voti del buon popolo milocchese e di tutti i colleghi consiglieri, proponeva
la sospensiva sul progetto della Giunta, in vista dei nuovi studi e delle nuove scoperte che
avrebbero finalmente dato la luce al paese di Milocca.
– Hai capito? – mi domandò Tucci, uscendo poco dopo nelle tenebre dello spiazzo
sterposo innanzi al Municipio. – E così per l’acqua, e così per le strade, e così per tutto. Da una
ventina d’anni il Colacci si alza a ogni fine di seduta per inneggiare alla Scienza, per inneggiare
alla luce, mentre i lumi si spengono, e propone la sospensiva su ogni progetto, in vista di nuovi
studii e di nuove scoperte. Così noi siamo salvi, amico mio! Tu puoi star sicuro che la Scienza, a
Milocca, non entrerà mai. Hai una scatola di fiammiferi? Cavala fuori e fatti lume da te.
(da Le sorprese della scienza, di L. Pirandello. testo completo)