Io so 
perché sono un intellettuale, uno scrittore, che cerca di seguire tutto 
ciò che succede, di conoscere tutto ciò che se ne scrive, di immaginare 
tutto ciò che non si sa o che si tace; che coordina fatti anche lontani,
 che mette insieme i pezzi disorganizzati e frammentari di un intero 
coerente quadro politico, che ristabilisce la logica là dove sembrano 
regnare l'arbitrarietà, la follia e il mistero.
Tutto ciò fa parte del mio mestiere e dell'istinto del mio mestiere. 
Credo che sia difficile che il mio "progetto di romanzo", sia sbagliato,
 che non abbia cioè attinenza con la realtà, e che i suoi riferimenti a 
fatti e persone reali siano inesatti. Credo inoltre che molti altri 
intellettuali e romanzieri sappiano ciò che so io in quanto 
intellettuale e romanziere. 
[...]
 
Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi.
Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.
A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha 
il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col
 potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un
 intellettuale.
Un intellettuale dunque potrebbe benissimo fare pubblicamente quei nomi: ma egli non ha né prove né indizi.
Il potere e il mondo che, pur non essendo del potere, tiene rapporti 
pratici col potere, ha escluso gli intellettuali liberi - proprio per il
 modo in cui è fatto - dalla possibilità di avere prove ed indizi.
[...] 
Il coraggio intellettuale della verità e la pratica politica sono due cose inconciliabili in Italia. All'intellettuale
 - profondamente e visceralmente disprezzato da tutta la borghesia 
italiana - si deferisce un mandato falsamente alto e nobile, in realtà 
servile: quello di dibattere i problemi morali e ideologici. (P. P. Pasolini)
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