martedì 26 marzo 2013

La cultura e la politica: la lingua separata


In tre righe. In questo articolo, comincio a uscire dalle ristrettezze nelle quali la politica ha utilizzato la cultura per soddisfare gli interessi di categorie di elettori. Nel concetto di cultura rientra certamente la lingua. Azioni, abusi e amnesie della politica.
Nell’articolo precedente, ho cercato di identificare la ratio secondo la quale i partiti tradizionali e più in generale il senso comune ha considerato la cultura nel discorso politico. Ne veniva fuori che la cultura è stata intesa come un sapere applicato a un saper fare, e che il concetto di cultura può essere più o meno formalizzato e può essere applicato a ogni genere di sapere applicato a ogni genere di saper fare: dal sapere basato sull’esperienza poniamo di un pescatore, a quello basato sul talento poniamo di un attore, a quello basato sullo studio poniamo dei medici. Tutti possediamo un sapere e lo utilizziamo nel nostro lavoro.

Ma la cultura di ognuno di noi non si identifica con il sapere che applica al suo mestiere. Abbiamo infatti quella che si chiama la cultura personale, la cultura generale e via dicendo. Ma non siamo ancora al punto, perché il punto è capire se c’è qualcosa di culturale che riguarda tutti noi.
La prima cosa che mi viene in mente è la lingua (ne ho già parlato in un altro articolo). Per quanto male la usiamo, è un fattore comune ed è un fattore culturale, e un fattore che ha una lunga storia.
Devo dire, al proposito, che la politica ha sempre avuto per la lingua una certa attenzione: Istituti di Cultura, contributi (via via più scarsi) a istituzioni specializzate (come l’Accademia della Crusca) o per la realizzazione di opere, convegni, corsi ecc.
Ma vi è anche un’attenzione d’altra natura, o, diciamo meglio, una disattenzione, da parte della politica. Mi riferisco al tema, ben noto, dell’uso della lingua italiana nelle leggi e negli atti amministrativi e, a cascata, nella prassi amministrativa e nella comunicazione amministrativa. Si tratta dei cosiddetti legalese e burocratese. Non intendo descriverli qui, anche perché da almeno due decenni molti studiosi (italianisti e giuristi) lo hanno fatto con esattezza. Tuttavia, se mi si passa l’estrema sintesi, è possibile affermare che quei linguaggi:
  • contengono diversi fatti linguistici usciti dall’uso comune da diversi decenni (es. il participio presente con valore verbale, come “documenti comprovanti le spese”);
  • impiegano costruzioni sintattiche e lessico più difficili del necessario;
  • ottengono troppo spesso di essere incomprensibili o, che è anche peggio, ambigui.
Quel che vorrei dire è che in ultima istanza questa è una responsabilità della politica. Lo è direttamente per la produzione legislativa. Lo è indirettamente, sul linguaggio amministrativo, per via del controllo che la politica esercita sulle amministrazioni.
È dunque responsabilità della politica l’esistenza anzi la persistenza di un linguaggio separato dalla realtà con il quale dare norme alla realtà. I costi di questa separazione sono altissimi in termini di efficienza della macchina amministrativa, e persino calcolabili in termini economici. Elenco non esaustivo dei meccanismi perversi:
  • difficoltà di comprensione della legge anche da parte di avvocati e giudici. Effetti: incertezza del diritto, lentezza dei processi, costi e danni per le parti in causa;
  • difficoltà di comprensione tra le persone di un ente pubblico, tra uffici, tra enti. Effetti: accumulo di comunicazioni esplicative, comportamenti scorretti, costi inutili per le amministrazioni e danni che ricadono sulla società;
  • difficoltà di comprensione tra gli enti pubblici e i cittadini e le imprese. Effetti: lungaggine delle pratiche, incomprensione e dunque comportamenti scorretti, costi e danni per i cittadini e le imprese.
Qualcuno dirà: tutta colpa del participio presente? E io risponderei: certo che no, povero participio presente. E allora qualcuno dirà: appunto, basterebbe eliminarlo e scrivere diversamente. Esattamente, risponderei io. E un altro dirà: e allora perché non lo fanno?
Già, perché? Non facile, la risposta. Il Ministro della Funzione pubblica Mario Baccini emise nel 2005 una Direttiva sulla semplificazionedel linguaggio delle amministrazioni, che comincia così: “Il dialogo con i cittadini richiede un ulteriore passo in avanti. Nello stile e nella mentalità”.

Mi ha sempre colpito la finezza del collegamento tra lo stile e la mentalità. Significa che per cambiare lo stile bisogna anche cambiare la mentalità. Non voglio entrare nella lunga digressione che richiederebbe svolgere bene il tema, e anzi vorrei rientrare nell’argomento principale il più in fretta possibile. Per farlo, sintetizzerei così: i cambiamenti della mentalità organizzativa sono dolorosi, lenti, e possono essere progettati solo se il vertice di una organizzazione li desidera. Esistono infiniti casi positivi nelle organizzazioni private. In quelle pubbliche, invece, i casi positivi sono pochi o meno noti, per quanti tentativi siano stati fatti (La tela di Penelope. Primo Rapporto Astrid sulla semplificazione legislativa burocratica, Il Mulino, 2010, il cui titolo la dice lunga). Dunque, se lo stile è una questione di mentalità e la mentalità è una questione organizzativa che dipende in ultima istanza dal vertice, ecco perché la responsabilità di quel linguaggio è della politica.

Dunque, tornando finalmente al tema principale, la lingua, fattore culturale basilare e unificante degli italiani, non interessa la politica, interessata piuttosto a mantenere una sua lingua separata. Separata dai vari linguaggi, scritti e parlati, dei quali i cittadini si servono per comunicare, per informarsi, per dilettarsi, per riflettere e per discutere.

Nella comunicazione tra i cittadini, la gran novità di questi ultimi due decenni è, a mio modo di vedere, che tutti scrivono, e pubblicano. In altri termini, abbiamo per la prima volta nella storia la possibilità di analizzare la lingua di tutti gli italiani o, per meglio dire, i diversi stili della lingua degli italiani. Senza entrare nel tecnico, mettiamola così:
  • il governo della grammatica non è molto diffuso (spesso, è più diffuso tra gli immigrati);
  • la pressione del parlato è fortissima, anche su scritture che potrebbero essere più controllate, dal momento che si pongono di fatto come esemplari (es. il linguaggio giornalistico);
  • la percezione dell’autorevolezza che acquista il pensiero quando è scritto è fortissima, soprattutto in coloro che ottengono la pubblicazione per via digitale, cioè al di fuori dei tradizionali meccanismi di controllo qualità.
A voler trarre qualche considerazione sociologica, si potrebbe dire che molti italiani riconoscono alla scrittura il valore (storico) di dare autorevolezza alle idee, e accedono alla scrittura senza preoccuparsi troppo di non saperla gestire bene.

Tutto ciò ha un rilievo politico notevole. Da un lato, infatti, dimostra l’incapacità della scuola di garantire un insegnamento linguistico nemmeno basilare (grammatica), quando invece sarebbe necessario che almeno i diplomati fossero consapevoli dell’adeguatezza di quale stile per quale canale (un contro è un sms, un conto un commmento in un forum, un conto è un articolo ecc.). Dall’altro, rappresenta l’insofferenza di molti italiani verso il classismo culturale, verso la sanzione che la cultura tradizionale ha emanato nei confronti di chi è rimasto al di fuori dei suoi meccanismi: non sai, non conti, non scrivi, non esisti.

In sintesi, la lingua rappresenta oggi una società ambiziosa, cioè desiderosa di emanciparsi da limiti storici, e nello stesso tempo incapace di sostenere adeguatamente la sua ambizione; una società dalle grandi tradizioni culturali, e nello stesso incapace di trasmetterle, cioè di renderle strumento dell’ambizione a crescere e non ostacolo alla crescita; una società non democratica, nella quale la lingua del vertice politico e amministrativo e la lingua dei cittadini sono lontanissime da un minimo accettabile di interoperabilità.

È del tutto evidente che la politica, oltre a servirsi di un lingua separata, non abbia avuto finora alcun interesse a occuparsi di queste cose, sempre ammesso che le abbia viste. Ciò che la politica ha fatto riguarda solo indirettamente la lingua:
  • disegni di legge per limitare il diritto di pubblicazione web;
  • riduzione continua delle risorse destinate all’istruzione;
  • controllo scellerato dell’informazione tradizionale (televisione e stampa).
Tuttavia, il discorso che ho condotto non nega che la lingua sia stata, sia e sia destinata a restare un fattore unificante, il sostrato comune degli scambi tra i membri della comunità e un indicatore altrettanto comune dello stato di salute della comunità. E che questo fattore, di per sé culturale, abbia a che fare profondamente con ciò che i singoli membri della comunità sono, e dunque, in definitiva, con quello che la comunità è.

Per questa via, cominciamo a uscire dalle ristrettezze nelle quali la politica ha chiuso il concetto di cultura, cioè, lo ricordo, definendola come un sapere applicato a un saper fare. Siamo sulla strada della cultura come valore identitario. Ma, per il momento, basta così: riprenderò il discorso in un altro articolo.

Nel frattempo, intermezzo comico (dal minuto 52,56 al min. 59,35, e notare la censura RAI 1977 al min. 57,37). 

Articoli collegati
* La lingua, ciò che ci unisce e discrimina
* Per la politica tradizionale, la cultura è un sapere  collegato al saper fare

1 commento:

  1. Il tema purttroppo resta attuale e quindi necessita di essere riproposto
    http://www.leformedellapolitica.it/67-norme-e-linguaggi-che-separano.html

    Antonio

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