martedì 19 marzo 2013

Per la politica tradizionale, la cultura è un sapere collegato al saper fare


Definire con precisione che cosa intendiamo con la parola ‘cultura’ non è facile. ‘Cultura’ ha diversi significati, e nessun contrario che la elida, che la annulli: natura, ignoranza, maleducazione e così via. In questo articolo, però, intendo occuparmi del significato che ‘cultura’ ha avuto nella vita politica, mentre del significato che potrebbe avere mi occuperò in un articolo successivo.
È molto singolare che i politici vengano spesso accusati di sventolare la bandiera della cultura solo in campagna elettorale o per proclami a cui non seguono fatti adeguati. Ma è altrettanto singolare che di tanto in tanto un gruppo di sé dicenti intellettuali firmi una specie di manifesto, di petizione, di appello affinché in Italia la cultura non muoia, uccisa dalla meschinità della politica. Dico che queste manifestazioni pro-cultura sono singolari perché nessuno si preoccupa di chiarire che cosa intende per cultura o, per meglio dire, ognuno la intende a modo suo. Dunque, vale, più o meno, tutto: musei, siti archeologici, letteratura, stampa, università, scuola ecc. ecc.

Nella pratica politico-amministrativa, ‘cultura’ significa creare ministeri (emblematico quello che mise insieme Turismo e Spettacolo), distribuire finanziamenti, organizzare eventi (premi, convegni, presentazioni ecc.).

A beneficiare di queste azioni o a governarle sono orientate le proposte e le politiche dei vari partiti, che raccolgono e sintetizzano il libero dibattito civile condotto dai cittadini. I quali, parlandone in generale, sono interessati poco a formalizzare un concetto di ‘cultura’ astratto e avulso dalla realtà, e piuttosto, molto comprensibilmente, tendono a tirarlo dalla loro parte, cioè a farlo coincidere, più o meno, con la propria cultura, che è ciò che sanno e, più in particolare, ciò che sanno fare.

In fondo, come dicevo all’inizio, è difficile dire che cosa sia cultura, e dunque è anche difficile dire che cosa non sia cultura. Se tutto – diciamo – è lecito, è lecitissimo intendere la cultura come il sapere che serve per fare un certo mestiere o senz’altro come il mestiere.

Culture, appunto, ce ne sono tante. Alcune sono sostenute dal talento, altre dall’intuizione, altre dall’esperienza, altre da una qualche formalizzazione; e a tali culture corrispondono attività professionali: artigiano, cuoco, artista, medico, avvocato. In altri termini, ci vuole un certo sapere per poter fare un mestiere.

Secondo questo approccio, ‘cultura’ significa un sapere collegato direttamente a un saper fare.

Vi è un secondo approccio. Quello enciclopedico-accademico, secondo il quale il sapere è collegato non a un saper fare quella cosa, bensì al solo saperla studiare e insegnare, che è un saper fare diverso, sicché un professore poniamo di letteratura non è quasi mai un poeta (e la maggior parte dei poeti non insegna la letteratura). La più importante funzione di questo approccio alla cultura è trasmetterla alle generazioni successive.

Abbiamo dunque due approcci:
  • cultura come sapere collegato direttamente a un saper fare;
  • cultura come sapere funzionale all’aumento del sapere e alla sua trasmissione alle nuove generazioni.

Quasi tutti i partiti tradizionali hanno giocato la carta ‘cultura’ in uno di questi significati, o in entrambi, e hanno preso a cuore le sorti di una o più categorie professionali. Abbiamo dunque partiti che fanno leva prevalentemente sulle culture popolari, prevalentemente sulle culture accademico-professionali, e partiti che tengono insieme le cose. La ratio di questi approcci è l’identificazione, da parte di questi partiti, di qualche segmento culturale e di sviluppare le relative politiche adatte e, soprattutto, una comunicazione politica stilisticamente adatta. In sintesi, potremmo dire che questi partiti hanno tenuto insieme diversi saperi collegati al saper fare, e li hanno saldati con una visione idealizzata del futuro, concepito come alternativo a quello dei partiti avversari.

I risultati si vedono. Non vanno bene. Nessuno è soddisfatto. La cultura, nessuno la interroga. Dunque, la cultura intesa come sapere applicato al saper fare, e questo saper fare rappresentato da un partito non sono altro che una forma di organizzazione del consenso, una chiave per semplificare la realtà e renderla funzionale alla distribuzione delle risorse.

A me appare chiaro chiarissimo che dobbiamo e possiamo alzare l’asticella del concetto di cultura, rendere il termine comprensivo di altri elementi, che ci riguardano tutti, che non hanno necessariamente a che fare con quello che ognuno di noi sa né con quello che ognuno di noi fa.

Ne discuterò in un prossimo articolo. Per il momento, un intermezzo musicale.

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