martedì 1 gennaio 2013

La lingua, ciò che ci unisce e discrimina


Il 20 dicembre scorso, a Milano, è stata dedicata una giornata di studi a Maurizio Vitale, per i suoi novanta anni (*). Uno dei valori fondanti dell'attività di Vitale è stato l'aver considerato la lingua come fattore unificante degli italiani. Le relazioni che ho ascoltato l'altro giorno lo mettevano in luce da un punto di vista interno alla disciplina, e mi hanno stimolato alcune riflessioni che vorrei proporre al mio lettore.
Da parecchi secoli, è la lingua  a tenere insieme tutte le tante nostre diversità: etniche, religiose, territoriali, politiche e così via. Al netto di tutte le differenze, resta la lingua. Lo diamo per scontato, ma sbagliamo. Per capire quanto sbagliamo, basterebbe ricordare quanto la questione linguistica sia stata importante nel Risorgimento. Manzoni, per esempio, nel Marzo 1821:

"Una d’arme, di lingua, d’altare,
Di memorie, di sangue e di cor".


Oggi se ne parla poco
Ma oggi, se c'è un aspetto dell'italianità del quale pochissimi parlano quando si parla dei nostri problemi attuali e delle prospettive e delle soluzioni, questo aspetto è la nostra lingua. Quando se ne parla, se ne parla per lamentarsi che i giovani non ne conoscono le regole (ma non per dire che la scuola non sa insegnarle); se ne parla a proposito degli immigrati, che dovrebbero impararla (ma non per dire che quando la imparano la usano meglio di molti italiani); se ne parla quando si vuole fare gli snobbini che non scrivono sms o per disprezzare chi scrive sxo per 'spero' (ma non per confessare che la comunicazione evolve e che bisogna intendere come evolve).


Alfabetizzazione e pubblicazione
Questi aspetti, in realtà, sono il riflesso e il risultato dell'evoluzione della nostra lingua e del nostro paese. Tra le molte cose che si possono dire, vorrei accennare a due questioni: 
  1. che nei primi tre-quattro decenni della Repubblica, tutti gli italiani hanno imparato a parlare e a scrivere in italiano;
  1. che negli ultimi due decenni, Internet ha consentito a chiunque di pubblicare quello che scrive. 
Questi due fenomeni sono strettamente correlati (per quanto il secondo non riguardi solo gli italiani, perché è un fenomeno globale). Infatti, sia la scrittura (e la conseguente lettura) sia la pubblicazione sono state per secoli questione per e fra pochi professionisti. Fino grosso modo alla metà degli anni Novanta del secolo scorso, mentre la scrittura si era nel frattempo molto diffusa (anche presso i tecnici di medio profilo: basta pensare alle scrittura amministrative), la pubblicazione è rimasta riservata a pochi, cioè a coloro che riuscivano a superare una serie di controlli qualitativi, affidati, per semplificare, all'editore e ai revisori. 

Internet ha fatto emergere queste scritture (per seguire l'esempio, i siti delle pubbliche amministrazioni) e ha fornito a chiunque l'opportunità di rendere pubblico il proprio scritto. Blog e social sono solo le più recenti (ma non poi così recenti) applicazioni. In molti ambienti di Internet, non vi dunque è alcun controllo qualitativo. Io faccio il mio blog, scrivo e pubblico. Entro in Facebook, lancio un thread oppure intervengo in una conversazione. Nessun limite, nessun controllo. 

I semicolti
Questa situazione farà felici i linguisti dei secoli futuri perché troveranno finalmente in abbondanza il materiale per studiare la lingua dei cosiddetti semicolti. I semicolti, secondo la formula un po' eufemistica e un po' snobbettina dei linguisti, sono coloro che sono abbastanza alfabetizzati da poter scrivere ma non abbastanza scolarizzati da non commettere errori e non abbastanza studiati da poter condurre un discorso razionale e documentato. 
Le discriminanti sono dunque due: 
  1. la conoscenza della grammatica (facilmente accertabile);
  2. la capacità di organizzare un discorso con argomenti pertinenti, i quali lasciano intendere al lettore la specializzazione e il livello culturale di chi scrive (meno facilmente e sicuramente accertabile).
Siccome stiamo parlando di scrittura e non di parlato (ambito nel quale le cose stanno un po’ diversamente), la capacità di organizzare un buon discorso non può prescindere dalla conoscenza della grammatica. Dunque, semplificando un po’, potremmo affermare che chi non conosce la grammatica non è in grado di condurre per iscritto un discorso razionale e di livello tale da essere interessante per altri. Naturalmente, ciò non significa necessariamente che non sappia pensare. Chi si esprime in una seconda lingua ha questi problemi, per esempio.


Girovagando per il web
Girovagando per il web non è affatto difficile imbattersi in scritti sgrammaticati (devo aggiungere che esiste una sgrammaticatura consapevole o comunque funzionale, che riguarda la scrittura nei social. Ho approfondito l’argomento ). Sui quali c’è poco da dire, perché dove non c’è grammatica non c’è, tendenzialmente, la struttura formale necessaria a rendere tale quel contenuto. 

Ho detto che la grammatica è la struttura formale necessaria a rendere tale quel contenuto. Ma devo aggiungere che, se è necessaria, non è sufficiente. I contenuti hanno bisogno, come minimo, anche di connessioni logiche e di una terminologia adeguata, due cose che costituiscono appunto la capacità di organizzare un discorso con argomenti pertinenti. 

Il web è dunque il luogo dove anche i semicolti possono pubblicare quello che scribacchiano. I casi sono infiniti. Nei mesi scorsi, mi sono concentrato ad analizzare le conversazioni sulla bacheca Facebook di alcuni importanti personaggi della politica (Bersani, Fini, Casini, Vendola ecc.). I risultati (semplificando un po’) sono che:
  1.  una piccola minoranza introduce nelle conversazioni un contenuto originale; 
  2. la stragrande maggioranza si limita ad applaudire il politico oppure a insultarlo.

Il lettore può star certo che i messaggi della stragrande maggioranza sono nella loro stragrande maggioranza messaggi postati da semicolti o da gente che desidera passare per tale. In altri termini, la possibilità di intervenire, addirittura di entrare in contatto direttamente con personaggi politici di primo piano viene largamente sfruttata, ma malissimo. Sicché, i politici non solo non rispondono mai, ma probabilmente nemmeno leggono quello che i partecipanti scrivono. 

Queste conversazioni sono esempi di sovraccarico informativo: troppi commenti senza costrutto nascondono i pochi commenti utili e, alla lunga (ma nemmeno poi troppo), svalutano lo strumento, ne annullano le potenzialità comunicative. Il che significa che la maggioranza, dicendo sciocchezze e per giunta male, soffoca la minoranza, che ha qualcosa da dire.

Facebook non è l’unico caso. Succede e anche spesso che il post di un semicolto ritwittato da altri semicolti raccolga un gran numero di adesioni, insomma faccia tendenza (klout) e acquisti un rilievo pubblico proprio grazie alla numerosità del consenso.


Democratico? Ni
Possiamo chiamarlo un fenomeno democratico? Ni. Sì, nel senso generico e persino banale che chiunque è libero di esprimersi e di dar retta a chi gli pare. In base a questo concetto, possiamo accettare serenamente che chiunque pensi di avere un’idea la scriva, la pubblichi e cerchi di convincere gli altri che quella è davvero una buona idea. In base ai criteri formali di cui parlavo prima, è possibile invece giudicare la cattiva qualità di un’idea dalla cattiva qualità del modo in cui viene presentata.

Quello che sto sostenendo è che la lingua italiana, che ci unisce, è un criterio in base al quale possiamo stabilire in modo non opinabile le gerarchie in ambiti nei quali stabilirle con altri criteri è impossibile o meno efficace. In base a questo criterio, il profluvio delle pubblicazioni dei semicolti, e poi anche il rilievo che talvolta acquistano, sono fenomeni solo superficialmente democratici, ma sostanzialmente non democratici in quanto non meritocratici. Un si fa per dire pensiero espresso male, per quanto sostenuto dal Mi Piace di molti fan, non è valido perché non è pensiero, a meno che non vogliamo affermare il predominio della società sulla sua stessa cultura.

Conoscere la propria lingua è un requisito di cittadinanza che abbiamo dato così per scontato che ora stiamo scoprendo che forse non siamo più d’accordo che sia un requisito di cittadinanza. Riaffermarlo mi pare il minimo che si possa fare, e non vedo chi possa negarne l’assoluta appropriatezza. 

Il problema è che il semicolto, che sa di essere molto più evoluto dei semicolti di una volta, non sa di esserlo, anzi crede di non esserlo. La gran differenza tra il semicolto di una volta e il semicolto di oggi è che il semicolto di oggi crede, in base alla sua alfabetizzazione, che sia sensato o persino importante per gli altri pubblicare quello che scrive, mentre il semicolto di una volta si metteva a scrivere solo se costretto da una necessità. 

Questa inconsapevolezza del semicolto spiega anche l’aggressività dei suoi messaggi, la volgarità, che nascondono in realtà la frustrazione, la mania di grandezza e altri disagi. Se le nascondono, trovano però una specie di giustificazione nell’uso spensierato che molti comunicatori professionisti, in particolare giornalisti e politici, fanno della lingua, per non dire del pensiero. Troppi tra costoro si permettono volgarità e aggressività di vario genere, ponendosi da se stessi in una specie di zona franca della cortesia, una zona irraggiungibile ai loro ascoltatori, che però si sentono autorizzati a fare lo stesso. Dire il cattivo esempio di pessimi maestri può bastare. 

È chiaro che la consapevolezza linguistica, se è un segno dello stato di salute della cultura di un popolo, dovrà essere rinforzata, e parecchio. Poi, ognuno la usi per dire quello che pensa, stando certo che, a quel punto, tutti riconoscono che pensa.

Nota
*) A chi non conosce Maurizio Vitale, dirò solo che è un grandissimo storico della lingua italiana, accademico della Crusca e dei Lincei, professore emerito dell'Università degli Studi di Milano. Ho avuto la fortuna di essere stato suo studente e di aver potuto beneficiare, anche recentissimamente, del suo rigore intellettuale e scientifico e della sua saggezza.

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