martedì 12 giugno 2012

Le tecnologie dell'io

In due righe
In questo articolo, rifletto sulle modalità con le quali il cosiddetto popolo del web si esprime: le tecnologie danno voce a chiunque e creano contesti dove la scrittura si trasforma.


Mai profetizzare la fine di qualcosa

Uno dei grandi vantaggi dell'era digitale è che sono scomparsi dai giornali quegli articoli piagnucolosi e saccenti che prevedevano l'imminente morte della scrittura. Il tema, casomai, è mutato: come scriviamo male. Devo dire che è vero. L'esercizio, infatti, nel caso della scrittura, non sviluppa l'organo, come in altri casi.

Ma credo che insistere sulla bassa qualità della scrittura sia inutile se restringiamo il campo di osservazione alla scrittura dei blog e dei social (come Facebook). Infatti, ci sono due questioni ben più rilevanti da affrontare al riguardo.

Il blog, ovvero Lo spazio per chi non ha spazio

Le piattaforme blog hanno azzerato la necessità, per qualsiasi autore, di sottoporre il proprio scritto a un processo editoriale. Pubblicare un articolo stampato, un libro (ma anche un film o un disco) richiede ancora oggi che qualcuno lo legga e lo valuti positivamente, che qualcuno investa per stamparlo, che qualcuno spenda qualche soldino per comprarlo. Solo al termine di un processo di questo tipo, e termine positivo, l'autore diventa un autore.

Le piattaforme blog fanno diventare chiunque un autore, a costo zero. Il che ha i suoi bravi aspetti positivi, accanto a quelli negativi, dei quali ne cito uno solo: che è cresciuta a dismisura la produzione di contenuti (il che ingombra il web). Nella quantità spesso di bassa qualità, vi sono però dei contenuti buoni e utili, alcuni dei quali, spinti dal gran numero di lettori, alimentano il dibattito e costringono in qualche caso il mondo dell'informazione (e più raramente della scienza e dell'arte) a tenerne conto.

Il sistema del self publishing è dunque una strada più rapida per mettere in circolazione delle buone idee. Ma c'è di più: anche per mettere in crisi il sistema di pubblicazione. Il quale, direi in tutti gli aspetti del processo, è presidiato da chi tradizionalmente controlla quel processo.

Faccio un paio di esempi (banali). Chi volesse far pubblicare le proprie poesie da un editore di buon livello e non è già noto all'ambiente della poesia non riesce nemmeno a farsele leggere da un critico, e dunque non riuscirà mai nemmeno a farsele pubblicare da un buon editore. Secondo esempio: chi volesse far comparire su un giornale una notizia che crede interessante e la segnala a un giornalista, ben raramente troverà soddisfazione. Le eccezioni ci sono, ma come sempre non smentiscono la regola.

Nel caso dei blog, è il numero che fa la forza: il numero dei blogger che insistono su quell'argomento, il numero dei lettori, dei tweet, dei Mi piace. Sono tanti ii che vicendevolmente appoggiano un io che ha avuto una buona idea. Ma non li chiamerei il popolo del web, perché questi ii restano individui.

È la tecnologia che gli dà voce, non la qualità delle idee. Mi pare infatti che la qualità di una idea abbia pur sempre bisogno di una sorta di certificazione e che questa certificazione, oltre un certo livello, derivi non dal numero di fan ma da un giudizio umano, da una discussione condotta con strumenti culturali adeguati a quell'idea. Da questo punto di vista, ciò che manca al cosiddetto popolo del web è appunto di non essere popolo, cioè di non essere strutturato. Ma siccome è un popolo digitale, resta digitale, e così le sue buone idee non incidono come potrebbero. Non so se sia sensato parlare di battaglia culturale, ma un'ipotesi la farei (posto che, nelle battaglie culturali, conta la cultura innanzitutto): che il popolo del web con le sue buone idee spinga per il rinnovamento, in Italia lentissimo, dei meccanismi di certificazione e delle persone che li controllano. Il ricambio è necessario e non è solo generazionale. È soprattutto una questione di potere (non necessariamente politico).


I social, ovvero L'intenzione, non la grammatica

Se il blog rappresenta un impegno e a volte un'ambizione e dunque non tutti ce l'hanno, l'accesso ai social è semplice. Ma, sempre più spesso, il contesto privato e professionale lo fa apparire e di fatto lo rende obbligatorio, come se si fosse ormai affermata, nella nostra sensibilità sociale, l'idea che se non ci sei non esisti e non potrai cogliere tutte le opportunità.

Una volta che sei dentro, il gioco è facile, soprattutto se lo scopo non è professionale ma privato. Infatti, la tecnologia è fatta apposta per metterti a tuo agio immediatamente, per farti partecipare senza doverti preparare, come se andassi invece – che so – all'assemblea di un partito o a un convegno scientifico. Lanci un tema, o rispondi a una sollitazione. Sbagli? Probabile che nessuno te lo faccia notare (in Facebook c'è solo il Mi piace, non c'è il Non mi piace). Da questo punto di vista, il popolo del web è molto generoso in fatto di perdono. Del resto, chi ardisce di rimbrottare qualcun altro sapendo di poter essere rimbrottato pure lui? Insomma, sembra il posto giusto per buttarla lì, senza tanti rischi e forse con qualche soddisfazione.

Come al bar, tra amici. Con la differenza che si scrive. Già, ma come si scrive? Ognuno come gli va, ma sono pochi i grammatically correct, che sono non necessariamente i più simpatici. Anzi, sono quelli che al bar, ma anche altrove, vengono segnalati come quelli che parlano come un libro stampato, che non è un gran complimento.

Come si scrive, allora? Molto spesso, si scrive verbalizzando il pensiero nel momento in cui scaturisce. Esattamente come quando parliamo. Quando parliamo, per quanto possiamo avere un pensiero sull'argomento della conversazione, lo adattiamo e lo verbalizziamo secondo la relazione che stabiliamo con il nostro interlocutore. Dunque, prima la relazione, poi il pensiero e immediatamente la parola. Questo meccanismo accade anche nei social. Un impulso a dire qualcosa ci spinge a dirlo, non quello che abbiamo da dire. Questo impulso è relazionale, cioè dipende dalla relazione che ho con l'interlocutore. Questo impulso modella il mio pensiero e genera le parole.

Del resto, non sarà un caso che lo spazio per postare qualcosa in Facebook contenga la domanda: "A cosa stai pensando?". Dico, potevamo trovarci "Hai qualcosa da dire?", "Hai pensato a qualcosa di bello/importante?". No: a cosa stai pensando: scrivi il tuo pensiero mentre lo pensi pensando anche ai tuoi amici con i quali vuoi condividerlo.

In altri termini, lo scritto nei social è conversativo. Per questa ragione è difficile molto spesso intendersi. Anche in molte e-mail è così. Quante volte capita che qualcuno scriva a un altro "non mi hai capito, non volevo dire quello che hai capito"?

Il fatto è che, diversamente ma non troppo dal caso dei blog, la tecnologia dà voce direttamente all'io, riducendo al minimo il filtro o freno della scrittura controllata, che è quella che siamo abituati a interpretare con gli strumenti grammaticali. Per interpretare bene invece la scrittura conversativa dovremmo riconoscere piuttosto l'impulso di chi scrive. Cosa non facile, ma se adottiamo esclusivamente gli strumenti grammaticali, buona notte.

In un altro articolo ho proposto un modello di interpretazione. Qui, per sintetizzarlo, dirò solo che dobbiamo affinare la nostra sensibilità e riconoscere, dal modo in cui un messaggio è scritto, che cosa voleva veramente dire l'autore, senza fidarci troppo delle parole, anzi scavando tra quello che non ha detto. Ripeto: stiamo parlando delle tecnologie dell'io, quelle che consentono all'io di esprimersi senza molte preoccupazioni.
C'è il suo bello.

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