lunedì 23 luglio 2012

Burocrazia e pubblica amministrazione non sono sinonimi


La Spending review ha messo al centro del dibattito la pubblica amministrazione, i suoi costi, le sue inefficienze e la lottizzazione partitocratica. "Nihil sub sole novi" o "C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico"?
Direi una sintesi: niente di nuovo, perché la questione è antica. Risale alla metà del Settecento, quando l'amministrazione dello Stato (la Francia) cominciò a essere chiamata "burocrazia". Il termine, che significa "potere dell'ufficio = dell'amministrazione" è stato coniato dall'economista Vincent de Gournay, morto nel 1759, ed è giunto in Italia nel 1781.

Come scrisse Francesco De Sanctis nella seconda metà dell'Ottocento, "la burocrazia interessava alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava alla caccia degl'impieghi, e, centralizzando gli affari, sopprimeva ogni libertà e movimento locale e teneva nella sua dipendenza province e comuni".

Non dovremmo oggi continuare a dare per scontato che 'burocrazia' e 'pubblica amministrazione' abbiano lo stesso significato. Nel suo straordinario Armi, acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni (Einaudi), Jared Diamond illustra benissimo lo sviluppo che ha portato alla nascita dell'amministrazione: le società, a un certo momento del loro sviluppo, hanno avuto bisogno di un apparato che fornisse i servizi necessari (contabili, legali, sanitari ecc.) per un ulteriore sviluppo. L'apparato si è rivelato un investimento, che ha reso. Infatti, per un paio di migliaia di anni, nessuno ha sentito il bisogno di chiamare questo apparato la burocrazia. Ciò è avvenuto quando, crescendo la complessità dell'organizzazione sociale, l'amministrazione ha cominciato a far valere le sue competenze (tecniche e legali) orientando in modo sempre più vincolante le decisioni persino del re. Scrive Alfredo Panzini, nella prima metà del secolo scorso: "Più aumenta la macchina sociale più aumenta la burocrazia!".

La burocrazia è dunque una degenerazione dell'amministrazione, perché, come un motore immobile, astratto, tecnico, impersonale, disetico, si estende ed estende il suo dominio a monte, nei confronti del potere, e a valle, nei confronti degli amministrati. Questa estensione si giustifica in se stessa: la burocrazia avanza ope legis, in forza di quelle leggi che essa stessa contribuisce a fare con le sue competenze tecniche e giuridiche, in forza di quelle procedure che essa si dà per garantire a se stessa del lavoro da fare.

Dico queste cose perché non mi pare che, nel dibattito sulla pubblica amministrazione, sia stato valorizzate come a mio parere lo meriterebbe il tema della consapevolezza che pubblica amministrazione e apparato burocratico/burocrazia non sono affatto sinonimi. Infatti, se non ce le diciamo, come potremmo immaginare di sburocratizzare l'amministrazione, cioè progettare una pubblica amministrazione efficiente, qual è quella di cui abbiamo un bisogno disperato?

Le questioni in gioco sono serie. Nessun cittadino e nessun politico può pensare di rinunciare alle competenze dell'apparato, di riuscire a semplificare l'oggettiva complessità del nostro mondo. Ma il cittadino e, su suo mandato, il politico deve – ripeto: deve – rimettere le cose a posto.

Molte amministrazioni e anche molti partiti discutono su come semplificare la pubblica amministrazione, per esempio affrontando il tema che la pubblica amministrazione debba mettere al centro il cittadino se vuole recuperare il suo ruolo positivo. Forse a tali parole sono seguiti progetti positivi, ma le eventuali best practices non si sono diffuse abbastanza.

Anzi, a giudicare dal Primo rapporto Astrid sulla semplificazione legislativa e burocratica (Il Mulino, 2010), ben poco è stato fatto. Il titolo di questo rapporto dice tutto: La tela di Penelope. Il volume raccoglie una serie di saggi molto ben fatti, approfonditi, documentati, alcuni nati nell'esperienza diretta di progetti svolti all'interno delle pubbliche amministrazioni. Ma proprio questo è anche un loro limite: di restare all'interno dei presupposti che invece bisognerebbe mettere in discussione. In altri termini, la semplificazione è vista come un processo che si possa compiere operando all'interno, modificando regole e processi inefficaci con altre regole per altri processi. L'intreccio di relazioni, competenze, conflitti tra amministrazioni (non solo italiane) è tale, però, da produrre il risultato sintetizzato nel titolo. Uno dei grandi meriti di quel volume è dunque di aver mostrato che la qualità di un progetto di cambiamento non è necessariamente una leva sufficiente a produrre il cambiamento.

Credo che anche per la pubblica amministrazione sia giunto il momento di affrontare una profonda ristrutturazione organizzativa. Che non significa modificare gli organigrammi a ogni mutamento del quadro politico. Significa piuttosto decidere a quale modello organizzativo riferirsi. Non sono un tecnico di questo argomento, ma vedo che il mondo delle imprese è molto più attento agli sviluppi organizzativi, anche perché il mercato stesso li pone all'attenzione dei decisori. Lo stato dell'arte mi pare che sia orientare in senso social non solo la comunicazione esterna, ma anche quella interna e collegare alla comunicazione i processi decisionali, produttivi affinché divengano collaborativi. Il Social Business Forum, organizzato a Milano da Open Knowledge il 4-5 giugno scorsi, è stato un momento importante per riflettere in questo senso, anche sulla base di esperienze concrete, di risultati misurabili e misurati.

Mi pare del tutto evidente che riorganizzare le strutture (soprattutto se complesse) implichi un salto in avanti della mentalità, della cultura, dei valori. Le aziende lo fanno, sono talvolta costrette a farlo, sotto l'impulso del mercato. E la pubblica amministrazione?

Non so se sia una pia illusione, ma a me pare che toccherà alla nuova politica uno sforzo che sarebbe contro natura per la vecchia politica: rompere il meccanismo del rimpallo della responsabilità, tale per cui l'amministrazione giustifica la sua inefficienza con l'intrusione della politica, e la politica giustifica la sua inazione con la complessità dell'amministrazione. A ciascuno il suo, la sua responsabilità. I cittadini giudichino entrambi. E che contino i risultati.

Bene, ma anche noi cittadini un qualche ruolo attivo dobbiamo averlo. Dovremmo scegliere in quale direzione orientare il cambiamento della pubblica amministrazione. E assumerci le responsabilità relative. Anche per noi potrebbero cambiare le relazioni con l'amministrazione a cui siamo stati abituati. Che so: smetterla di pensare che la soluzione del problema del lavoro sia quella di farsi assumere da un'amministrazione; smetterla di brigare per farsi raccomandare a un concorso. A proposito, che ne dite se abolissimo i concorsi di assunzione e di avanzamento? Diciamocelo: se dovevano servire a garantire la trasparenza, lo scopo è fallito (chi ci crede ancora alzi la mano).

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