La Spending review ha messo al
centro del dibattito la pubblica amministrazione, i suoi costi, le sue
inefficienze e la lottizzazione partitocratica. "Nihil sub sole novi"
o "C'è qualcosa di nuovo oggi nel sole, anzi d'antico"?
Direi una
sintesi: niente di nuovo, perché la questione è antica. Risale alla metà del
Settecento, quando l'amministrazione dello Stato (la Francia) cominciò a essere
chiamata "burocrazia". Il termine, che significa "potere
dell'ufficio = dell'amministrazione" è stato coniato dall'economista
Vincent de Gournay, morto nel 1759, ed è giunto in Italia nel 1781.
Come
scrisse Francesco De Sanctis nella seconda metà dell'Ottocento, "la
burocrazia interessava alla conservazione dello Stato la borghesia, che si dava
alla caccia degl'impieghi, e, centralizzando gli affari, sopprimeva ogni
libertà e movimento locale e teneva nella sua dipendenza province e
comuni".
Non dovremmo oggi continuare a dare
per scontato che 'burocrazia' e 'pubblica amministrazione' abbiano lo stesso
significato. Nel suo straordinario Armi,
acciaio e malattie. Breve storia del mondo negli ultimi tredicimila anni
(Einaudi), Jared Diamond illustra benissimo lo sviluppo che ha portato alla
nascita dell'amministrazione: le società, a un certo momento del loro sviluppo,
hanno avuto bisogno di un apparato che fornisse i servizi necessari (contabili,
legali, sanitari ecc.) per un ulteriore sviluppo. L'apparato si è rivelato un
investimento, che ha reso. Infatti, per un paio di migliaia di anni, nessuno ha
sentito il bisogno di chiamare questo apparato la burocrazia. Ciò è avvenuto
quando, crescendo la complessità dell'organizzazione sociale, l'amministrazione
ha cominciato a far valere le sue competenze (tecniche e legali) orientando in
modo sempre più vincolante le decisioni persino del re. Scrive Alfredo Panzini,
nella prima metà del secolo scorso: "Più aumenta la macchina sociale più
aumenta la burocrazia!".
La burocrazia è dunque una
degenerazione dell'amministrazione, perché, come un motore immobile, astratto,
tecnico, impersonale, disetico, si estende ed estende il suo dominio a monte,
nei confronti del potere, e a valle, nei confronti degli amministrati. Questa
estensione si giustifica in se stessa: la burocrazia avanza ope legis, in forza di quelle leggi che
essa stessa contribuisce a fare con le sue competenze tecniche e giuridiche, in
forza di quelle procedure che essa si dà per garantire a se stessa del lavoro
da fare.
Dico queste cose perché non mi pare
che, nel dibattito sulla pubblica amministrazione, sia stato valorizzate come a
mio parere lo meriterebbe il tema della consapevolezza che pubblica
amministrazione e apparato burocratico/burocrazia non sono affatto sinonimi. Infatti,
se non ce le diciamo, come potremmo immaginare di sburocratizzare
l'amministrazione, cioè progettare una pubblica amministrazione efficiente,
qual è quella di cui abbiamo un bisogno disperato?
Le questioni in gioco sono serie.
Nessun cittadino e nessun politico può pensare di rinunciare alle competenze
dell'apparato, di riuscire a semplificare l'oggettiva complessità del nostro
mondo. Ma il cittadino e, su suo mandato, il politico deve – ripeto: deve –
rimettere le cose a posto.
Molte amministrazioni e anche molti
partiti discutono su come semplificare la pubblica amministrazione, per esempio
affrontando il tema che la pubblica amministrazione debba mettere al centro il
cittadino se vuole recuperare il suo ruolo positivo. Forse a tali parole sono
seguiti progetti positivi, ma le eventuali best practices non si sono diffuse
abbastanza.
Anzi, a giudicare dal Primo
rapporto Astrid sulla semplificazione legislativa e burocratica (Il Mulino,
2010), ben poco è stato fatto. Il titolo di questo rapporto dice tutto: La
tela di Penelope. Il volume raccoglie una serie di saggi molto ben fatti,
approfonditi, documentati, alcuni nati nell'esperienza diretta di progetti
svolti all'interno delle pubbliche amministrazioni. Ma proprio questo è anche un loro
limite: di restare all'interno dei presupposti che invece bisognerebbe mettere
in discussione. In altri termini, la semplificazione è vista come un processo
che si possa compiere operando all'interno, modificando regole e processi
inefficaci con altre regole per altri processi. L'intreccio di relazioni,
competenze, conflitti tra amministrazioni (non solo italiane) è tale, però, da
produrre il risultato sintetizzato nel titolo. Uno dei grandi meriti di quel
volume è dunque di aver mostrato che la qualità di un progetto di cambiamento
non è necessariamente una leva sufficiente a produrre il cambiamento.
Credo che anche per la pubblica
amministrazione sia giunto il momento di affrontare una profonda
ristrutturazione organizzativa. Che non significa modificare gli organigrammi a
ogni mutamento del quadro politico. Significa piuttosto decidere a quale
modello organizzativo riferirsi. Non sono un tecnico di questo argomento, ma
vedo che il mondo delle imprese è molto più attento agli sviluppi
organizzativi, anche perché il mercato stesso li pone all'attenzione dei
decisori. Lo stato dell'arte mi pare che sia orientare in senso social non solo
la comunicazione esterna, ma anche quella interna e collegare alla
comunicazione i processi decisionali, produttivi affinché divengano collaborativi.
Il Social Business Forum, organizzato a Milano da Open Knowledge il 4-5 giugno
scorsi, è stato un momento importante per riflettere in questo senso, anche
sulla base di esperienze concrete, di risultati misurabili e misurati.
Mi pare del tutto evidente che
riorganizzare le strutture (soprattutto se complesse) implichi un salto in
avanti della mentalità, della cultura, dei valori. Le aziende lo fanno, sono
talvolta costrette a farlo, sotto l'impulso del mercato. E la pubblica
amministrazione?
Non so se sia una pia illusione, ma
a me pare che toccherà alla nuova politica uno sforzo che sarebbe contro natura
per la vecchia politica: rompere il meccanismo del rimpallo della
responsabilità, tale per cui l'amministrazione giustifica la sua inefficienza
con l'intrusione della politica, e la politica giustifica la sua inazione con
la complessità dell'amministrazione. A ciascuno il suo, la sua responsabilità.
I cittadini giudichino entrambi. E che contino i risultati.
Bene, ma anche noi cittadini un qualche
ruolo attivo dobbiamo averlo. Dovremmo scegliere in quale direzione orientare
il cambiamento della pubblica amministrazione. E assumerci le responsabilità
relative. Anche per noi potrebbero cambiare le relazioni con l'amministrazione
a cui siamo stati abituati. Che so: smetterla di pensare che la soluzione del
problema del lavoro sia quella di farsi assumere da un'amministrazione;
smetterla di brigare per farsi raccomandare a un concorso. A proposito, che ne
dite se abolissimo i concorsi di assunzione e di avanzamento? Diciamocelo: se
dovevano servire a garantire la trasparenza, lo scopo è fallito (chi ci crede
ancora alzi la mano).
Well done, bros.
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