venerdì 12 dicembre 2014

Il mio (punto di vista su) Fare Reset

Questo articolo riprende paro paro il mio contributo all'e-book di Corrado Rabbia e di Cristiano Mario Sabbatini (che ringrazio per avere permesso la duplica della pubblicazione), intitolato Reset. La nuova politica al tempo dei Social Network (Liomedia, 2014, pp. 320, € 5). Si tratta di una personale ricostruzione di una battaglia politica, condotta all'interno di Fare per Fermare il declino (partito al quale aderii e per il quale fui candidato al Senato), una battaglia perduta. Se ho scritto il contributo e se lo ripubblico qui è perché ritengo che la sconfitta che subimmo allora all'interno di Fare possa tramutarsi non dico in una vittoria ma almeno in uno spunto di riflessione per tutti i cittadini che hanno a cuore il destino di questo porco paese. Infatti, al di là dei contenuti del libro, che sono poi i contenuti di un gruppo di discussione Facebook che discuteva di politica anti-sistema, il tema principale sono le modalità della politica partecipativa digitale, che noi realizzammo positivamente in quel gruppo.

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Le pagine che qui vengono pubblicate sono la testimonianza di oltre un anno di discussioni politiche avvenute in Facebook. Il gruppo che le ha ospitate, Fare Reset, nacque nel settembre del 2013 per opera di alcuni aderenti di Fare per Fermare il declino, e di persone vicine ai temi che quel partito discuteva. Ero tra i promotori (all’epoca, iscritto a Fare), e, su invito di Cristiano Mario Sabbatini, illustro volentieri il mio punto di vista.

Partirò dalla fine, con una bella ammissione: noi promotori di Fare Reset abbiamo perso, tra settembre 2013 e marzo 2014, la battaglia interna con la quale ci proponevamo di orientare o meglio riorientare Fare per Fermare il declino a una politica di rottura con la politicaccia che ha prodotto il declino e che continua ad aggravarlo.

Se abbiamo perso la battaglia interna, che nelle nostre intenzioni sarebbe poi dovuta diventare la madre delle battaglie poltiche del partito nel contesto italiano ed europeo, ciò non significa che non avevamo delle buone ragioni, che potrebbero ancora essere utili nel dibattito politico attuale e prossimo, nel quale Fare non svolge più alcun ruolo, essendosi incamminato, come avevamo previsto (era molto facile), verso un suo inarrestabile declino.

Infatti, l’allora maggioranza di Fare compì delle scelte disastrose, sia organizzative (Statuto burocratico, struttura verticistica, rigido controllo dei Comitati Locali e tacitazione dei Comitati tematici) sia politiche, partecipazione alle elezioni europee con apparentamenti compromettenti (Tabacci, Scelta civica ecc.), che produssero una sconfitta che a me appare senza onore e senza appello.

Restano però gli stessi problemi che la società italiana ed europea devono risolvere e restano tutte le questioni di metodo politico (con chi e come risolvere quali problemi secondo quale priorità), che noi avevamo tentato di porre quali prioritarie per l’azione di un movimento che, se non era di rottura, non era niente.

Noi proponevamo una politica antisistema pienamente democratica. Che cosa volesse dire ‘antisistema’, fu oggetto di dibattito nelle pagine qui pubblicate. C’era chi, riprendendo i discorsi ‘incendiari’ che i fondatori di Fare tennero al Teatro dal Verme di Milano il 12 settembre 2012, si riferiva alla necessità di sostituire completamente la classe politica compromessa con lo sfacelo degli ultimi venti anni. C’era chi puntava anche e anzi principalmente alla ricostituzione di una base condivisa di cultura civile, quale necessaria premessa di uno sviluppo che si doveva basare su scelte difficili e dolorose per tutti. C’era chi proponeva l’apparentamento con i movimenti più radicalmente protestatari (come il 9 dicembre) (quest’ultima posizione è stata quella che ha caratterizzato Fare Reset dopo le elezioni europee di maggio 2014 e fino alla chiusura della pagina nel novembre del 2014).

Il gruppo Facebook Fare Reset è stato aperto il 26 settembre 2013 da Corrado Rabbia, che all’epoca non conoscevo ancora personalmente (ma solo virtualmente), e da Cristiano Mario Sabbatini, che avevo conosciuto nel gennaio del 2013, quando entrò a far parte del Comitato Tematico Cultura “Alfredo Pizzoni”, che avevo fondato due mesi prima e di cui ero il coordinatore, incarico non elettivo che tenni fino allo scioglimento del Comitato nel marzo del 2014.

Dal mio particolare punto di vista, le premesse politiche di Fare Reset nacquero appunto nelle conversazioni che tenevo con Cristiano Mario nel febbraio-maggio del 2013 quando Fare dovette decidere come rimediare al pasticciaccio brutto prodotto da Oscar Giannino con le sue grottesche menzogne e dalla scellerata gestione del problema da parte di Luigi Zingales e di tutta la dirigenza, che esibirono una competenza zero nella gestione organizzativa della crisi.

Già nelle imminenze del congresso di maggio a Bologna fu chiaro e lampante che Michele Boldrin, che aveva assunto la guida del partito, non aveva alcuna intenzione di confermare gli assunti originali bensì quella di surrogarli con la prospettiva dell’accorpamento con le altre forze liberali per creare quello che chiamò “il partito che non c’è”: si intendeva passare dal movimentismo che aveva coinvolto decine di migliaia di persone che mai si erano occupate di politica, a una specie di federazione composta in gran parte da gente che faceva da anni politica, sia pure di ultra minoranza, e sotto bandiere se non brutte di certo ben connotate nello schieramento tradizionale (come i due o tre partitini liberali). In altri termini, si intendeva puntare non direttamente agli elettori, potenzialmente a tutti, ma alle sigle che controllavano un certo (ma molto basso) numero di voti. In sintesi, si tentava l’ingresso alla politica di sistema attraverso la porta più piccola e storicamente più fallimentare.

In quei mesi, però, io combattevo anche un’altra battaglia interna a Fare: la battaglia per il riconoscimento sostanziale del Comitato Tematico Cultura. La prima gestione ci aveva attribuito compiti secondari nell’organizzazione di eventi di propaganda. Per fortuna, riuscimmo a non occuparcene, grazie alla campagna elettorale che costrinse ognuno di noi a fare altro, e alla caduta della prima gestione in seguito al pasticciaccio gianniniano.

Pochi giorni prima del fattaccio, Boldrin ci volle tra gli speaker dell’Antimeeting (9 febbraio 2013), il momento più splendido della vita di Fare: quattromila persone indiavolate e gioiose, con bandiere e slogan, riunite a pagamento per tutto il giorno ad ascoltarsi e a discutere. Credetti fosse veramente giunto il momento in cui la politica si sarebbe messa a considerare in tutta la sua portata il gran problema della responsabilità individuale, della cultura civile, del senso di coappartenenza, del senso del bene comune. Fu una illusione che si rivelò definitivamente tale solo un anno dopo.

Poco dopo l’Antimeeting, con alcuni membri del Comitato  producemmo le Tesi per rinnovare il patto civile, ignorate completamente dalla gran parte degli aderenti e dalla dirigenza del partito. A onor del vero, un dirigente fece eccezione e mi scrisse: “Interessante ma poco funzionale agli obiettivi che in questo momento interessano il movimento. D'altra parte mi sembra che lo scarso interesse che ha suscitato nelle persone testimoni il fatto che il tuo documento dia delle risposte a domande non poste.” Fu una risposta agghiacciante, perfetta rappresentazione del cinismo che la dirigenza di Fare stava assumendo o aveva già assunto quale criterio e modalità di azione.

Se fino al congresso di maggio 2013, il Comitato Cultura aveva tenuto una posizione neutrale nei confronti degli schieramenti interni (attendendo istruzioni dalla dirigenza eletta), dopo il congresso fu chiaro che il Comitato avrebbe dovuto combattere per affermare la propria esistenza addirittura contro l’ostilità della dirigenza, che emerse subito a proposito del gran tema dell’istruzione, che fu l’occasione per un nostro ulteriore ostracismo.

Era il settembre del 2013. Fare si stava chiaramente incamminando verso una modalità politica convenzionale, compromettente, senza peraltro avere le competenze dei vecchi marpioni che gestivano la politica, con quelle modalità, per professione e da tempo. Contemporaneamente, le file del partito diminuivano di numero e di qualità.

Fu in questo contesto che le istanze-speranze del Comitato Cultura si intrecciarono con quelle della politica antisistema, e anzi ne divennero un capitolo. Era infatti e continua ad essere intrinsecamente antisistema una politica culturale improntata non tanto alla gestione dei beni culturali o al finanziamento occasionale di questo o quell’aspetto dell’immenso patrimonio storico, creativo e produttivo del nostro paese, quanto piuttosto al consolidamento di una coscienza civile in grado di tollerare i sacrifici in vista del bene comune. Questa politica era ed è antisistema non in se stessa, ma proprio relativamente al sistema italiano, che si è sviluppato valorizzando la faziosità, i privilegi, le prove di forza, che hanno impedito ai cittadini di trovare una coesione a un punto più alto delle loro legittime differenze. Vittime dunque, i cittadini, ma anche artefici, in quanto essi stessi portatori di quel tipo di mentalità contro-civile. Se ci troviamo ormai nella condizione di sudditi (per citare Nicola Rossi), è perché lo abbiamo anche voluto, perché ci ha fatto (a lungo) comodo. A me appare evidente che se non si riparte da qui, cioè dalla messa in discussione del nostro modo di intendere la vita civile, non si va da nessuna parte.

Il tema culturale è però un capitolo poco esplicito nelle conversazioni qui pubblicate, perché il Comitato aveva una sua pagina Facebook e altre modalità di confronto tra i membri, con gli altri aderenti e con la dirigenza. Per completezza di informazione, dirò dunque che il Comitato Cultura, approssimandosi il congresso del marzo 2014, entrò in collisione diretta e irrimediabile con il coordinatore nazionale Michele Boldrin. Oggi mi vien da dire che si è trattato di un grande equivoco, dovuto in parte alla nostra difficoltà di far intendere efficacemente le nostre proposte. Quanto al resto, non ha molto senso, oggi, tornarci.

Torniamo piuttosto a Fare Reset.

Parallelamente alla pagina Fare Reset, i promotori si ritrovavano in un gruppo Facebook segreto, che serviva di regia. La questione è di grande rilevanza, perché in quel gruppo, costituito da una decina di persone, elaborammo non solo le riflessioni quotidiane sul posizionamento politico della pagina rispetto al ‘tema del giorno’, ma soprattutto le modalità di gestione delle conversazioni pubbliche. Bisogna riconoscere, e lo faccio molto volentieri, a Cristiano Mario Sabbatini di avere identificato lo ‘stile’:
  • una policy minimale (“Opinioni argomentate e buona educazione”. Stop); 
  • il monitoraggio 24 ore su 24, compiuto a turno dai vari promotori.
Con queste premesse, Fare Reset divenne un gruppo molto numeroso (circa 900 iscritti, mi pare), molto ordinato. Rarissime furono le conversazioni rissose (e nel caso, subito sedate dal monitoratore di turno), ancor più rari i casi di bannatura (estromissione di un iscritto per violazione continua della policy).

Di tutto ciò che avveniva nella pagina pubblica, discutevamo nel gruppo di regia. Tutte le posizioni dei promotori, pubblicate con l’account che chiamavamo l’omino nero, venivano discusse nel gruppo di regia. Tutti i comunicati venivano elaborati collettivamente, a partire dalla prima bozza fino alla versione finale, che usciva spesso dalla mano di Beatrice Branchesi, anche lei membro del Comitato Cultura.

Fu così che realizzammo un caso positivo di politica partecipativa digitale. Questo risultato vale persino di più del contenuto elaborato nella pagina, la politica antisistema. Vale di più in quanto si colloca sul piano della metodologia dell’azione politica, e potrebbe dunque interessare un lettore lontano dai temi antisistema, o contrario ad essi.

Del resto, anche il modo, cioè la politica partecipativa digitale, è politica, ed è stato, all’interno di Fare, un’altra spina nel fianco della dirigenza della gestione Boldrin, dirigenza che si proponeva programmaticamente di realizzarla (la politica partecipativa digitale), ma che nei fatti non lo fece mai, fino a quando, per voce di un dirigente nazionale, ci fece addirittura sapere che alla dirigenza non servivano le idee ma il presidio territoriale (chi scorra le pagine, troverà il post relativo).

Il quale presidio territoriale si può realizzare bene solo quando vi è una base motivata e numerosa. Ma la gestione Boldrin procedeva al ritmo di 800 uscite al mese, le cui cause erano per noi chiarissime (zero democrazia sostanziale interna, scelte compromettenti fuori), ma venivano ostinatamente rimosse dalla dirigenza, ottusa persino nella valutazione del disastro elettorale intermedio delle elezioni amministrative di novembre 2013.

Da novembre 2013 alla fine di febbraio 2014 la pagina riflette il dibattito congressuale, regolato da uno Statuto assurdo (vani furono gli emendamenti proposti da più parti), che costringeva gli iscritti a schierarsi per una mozione e vincolava i delegati a votare per i candidati della loro mozione. Con alcuni promotori di Fare Reset fui promotore anche della mozione di minoranza, capolista Corrado Rabbia. Questa mozione aveva come punti fondamentali: la semplificazione della struttura organizzativa e la restituzione di peso ai comitati locali e tematici; il recupero dell’identità originale; la rinuncia alla partecipazione alle elezioni europee (per la semplice considerazione che non eravamo pronti a correre da soli); il rifiuto dell’alleanza con persone e sigle compromesse. Questa mozione riprendeva esplicitamente anche i temi culturali, esplicitamente ripudiati dalla mozione “Boldrin”.

È necessario precisare che la pagina Fare Reset e la mozione “Rabbia” non coincidevano, nel senso che non tutti i promotori della pagina erano in quel momento iscritti a Fare e dunque non erano promotori della mozione “Rabbia”, alla quale, inoltre, non tutti questi riconoscevano una ragionevole o corretta prospettiva politica. Tuttavia, la pagina, anche per la credibilità acquisita nei mesi precedenti, divenne il luogo principale del dibattito relativo alla mozione “Rabbia”, che alla fine ottenne il 12% dei delegati, che era esattamente quello che avevamo stimato essere il risultato più verosimile.

In quelle settimane, molti di noi presero piena consapevolezza che la storia era finita. Giocata l’ultima battaglia per rispetto ai compagni di strada e alle nostre idee, uscimmo dopo il congresso. Alcuni, come Corrado, restarono ancora in Fare, altri, come Cristiano Mario (che era uscito da Fare diversi mesi prima), proseguirono l’attività della pagina Fare Reset (io ne avevo proposto la chiusura, dopo il congresso), che mutò policy e scopi.

Il mio Fare Reset termina nel marzo 2014. Dopo il congresso, non mi interessò più nemmeno Fare, avviato irreversibilmente verso il disastro ultraprevedibile delle elezioni europee, e ormai composto da un gruppo sempre più sparuto di sostenitori di Michele Boldrin o di oppositori generosi, come Corrado Rabbia, a cui non mancò la forza disperata di tentare a oltranza di tenere in vita quello che a me e ad altri pareva essere diventato un contenitore irrimediabilmente vuoto.

Non riesco ancora a superare il rimpianto per l’enorme occasione che abbiamo sprecato, a vantaggio (credo) di tutto il nostro paese. Nell’estate del 2012, il Manifesto di Fermare il declino aveva improvvisamente e miracolosamente risvegliato la coscienza civile di decine di migliaia di italiani, che non si erano mai occupati di politica e che, preoccupati per una china che non smetteva di farsi più ripida, avevano deciso di prendersi in prima persona la responsabilità di occuparsi della cosa pubblica, di “rivoltare l’Italia come un calzino”.

Non abbiamo rivoltato nemmeno il calzino, anche se talune proposte sono state riprese da altre forze politiche, che ne hanno fatto, ça va sans dire, strame. Serviva, evidentemente, ben altro. Limiti che potrebbero spiegare almeno in parte il fallimento:
  • eccesso di focus sulle questioni economiche; 
  • eccesso di dibattito ideologico sulle teorie liberali (cose che non accadono più nemmeno nei partiti fortemente connotati ideologicamente);slittamento da un movimento pragmatico a un partito liberale;
  •  scarsa preparazione politica (visione tattica e strategica, contenuti specifici, tecniche di comunicazione);
  • rissosità tra militanti (forse dovuta a stress da frustrazione).
Ciò nonostante, questa esperienza politica ha permesso a tanti di noi di incontrare persone di eccezionale valore umano e culturale, al netto dei tanti errori politici che ognuno di noi, nella sua inesperienza, nel suo ingenuo ma genuino impegno civile che compensava la mancanza di una vocazione specifica per l’attività politica, ha commesso. L’errore politico, in altri termini, ce lo dobbiamo e possiamo reciprocamente perdonare. Il valore umano, aumentato dalla maggior consapevolezza dei limiti della nostra capacità di fare politica (e, per chi lo desidera, di essere un politico), è quel che resta di meglio, e che potrebbe costituire un buon punto di ripartenza, quando vi fossero le condizioni.

Oltre a questa consapevolezza, ce n’è un’altra: che quando si perde, come noi abbiamo perso, non si deve necessariamente pensare di avere avuto torto. L’equazione vittoria=ragione è valida in politica, certamente, ma vale in un contesto che poi muta, e rapidamente. Mutando il contesto, le buone ragioni potrebbero ottenere quel consenso che prima era mancato, tanto più che nulla mi fa pensare che esse siano state nel frattempo superate da eventi che le abbiano messe in mora.

Grazie al confronto con le persone eccellenti che mi è capitato di incontrare, sono scaturite le Tesi e la pagina Fare reset, che, dal mio punto di vista, costituiscono il contributo migliore che Fare abbia dato al dibattito politico italiano. Altro, che resti o che meriti di essere ricordato e toccato con mano, non c’è, o non lo vedo più.

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