domenica 17 febbraio 2013

Siamo in declino, anzi no, stiamo sconfiggendo il nemico

Ci sono sostanzialmente due approcci alla politica, e non parlo solo della campagna elettorale:
c'è chi pensa che energici correttivi bastino, e c'è chi pensa, come io penso, e come FARE per Fermare il declino pensa, che siamo in declino, e dunque che i correttivi per quanto energici non bastino: bisogna cambiare alcune regole, in modo radicale.

Ma il punto, cioè il presupposto da non dare per scontato, è: siamo in declino o no?

Di declino aveva parlato per primo, anni fa, Luca di Montezemolo, quando era presidente di Confindustria e tuonava agli imprenditori che non voleva sentire parlare di declino. Che cosa gli imprenditori e Montezemolo intendessero allora per declino, non saprei dire. Osservo solo che il termine 'declino' non è poi entrato nel dizionario politico in modo stabile e serio, fino a quando Oscar Giannino, Michele Boldrin, Luigi Zingales, Alessandro De Nicola, Sandro Brusco, Andrea Moro e Carlo Stagnaro non hanno pubblicato il manifesto di Fermare il declino (FARE è stato aggiunto in seguito) e hanno sottotitolato "di cui la crisi economica è solo un'aggravante".

È evidente che se si parla di declino non si parla solo di spread, di debito pubblico, di spesa pubblica, di tasse. Di queste cose si parlava anche quando l'economia italiana andava bene. Il declino è un’altra cosa, non è un termine che si applichi solo all'economia, anche se a un certo punto, l'economia occupa, purtroppo in modo legittimo, il centro dell'attenzione e del dibattito politico.

Ma l'economia in declino non spiega da sola il declino.

La prima ragione per cui siamo in declino è che il patto di convivenza si è sgretolato. Non sono più condivisi i principi fondamentali. Non abbiamo fiducia nella reciprocità dei comportamenti corretti. Non abbiamo rispetto per chi ha opinioni diverse: diventa subito un ignorante, un comunista, un fascista e via insultando. Ognuno si crede nel diritto di giudicare il demerito altrui, basandosi sul presupposto di meritare. Ognuno si crede nel diritto di invocare giustizia contro un altro, basandosi sul presupposto di essere una vittima, talvolta addirittura di essere l'unica vittima. Potrei proseguire.

La seconda ragione è che nessuno chiede alla politica di occuparsi del bene comune, e difatti la politica non se ne occupa (bla bla a parte). Al fondo di questo atteggiamento c'è la nostra faziosità, che è il risultato del culto della contrapposizione, della persistenza fuori tempo massimo di un atteggiamento ideologico, e della salvaguardia degli interessi locali e di categoria condotta, con la disperazione dell'istinto di sopravvivenza, contro gli interessi locali e di categoria degli altri.

La terza ragione è che nessuno è ottimista, che tutti sono scontenti e preoccupati, ma pochi sono disposti ad ammettere le proprie responsabilità, come se il problema fosse degli altri, fossero gli altri. In Italia è maggiore anzi prevalentissima l'azione per difendere le prerogative rispetto all'investimento sul futuro, al rischio calcolato, alla fiducia in se stessi. Manca un progetto comune.

La quarta ragione, quella decisiva, è che abbiamo raggiunto il punto di rottura del sistema, forse il punto di non ritorno. Non lo dice solo il valore assurdo che ha raggiunto il debito pubblico. Lo dice l'impossibilità di reggere in queste condizioni:
* non regge la scuola, che, per dirne una, non ha le risorse per pagare i supplenti;
* non regge la giustizia, che ha tempi lunghissimi, iniqui;
* non regge in generale la pubblica amministrazione, sotto schiaffo del politico e governata da una mentalità conservativa del potere burocratico;
* non regge l'impresa, schiacciata dalle tasse ma anche dalla carenza di uno spirito imprenditoriale socialmente consapevole e dalla mancanza di una visione aggiornata del proprio ruolo.

A queste condizioni ci siamo arrivati per gradi, fidandoci di ogni ricetta che ancora oggi i partitacci rilanciano come se già non avessimo sufficienti prove che sono inefficace. Ed è proprio questa arroganza dei partitacci la prova del nove del declino, perché i partitacci contano sul fatto di convincere ancora gli elettori non tanto sulla qualità delle ricette quanto sulla faziosità, per cui io poniamo elettore di un Ber (aggiunga il lettore la desidenza) preferisco votare quella scatola vuota piuttosto che lasciare che le elezioni le vinca l’altro Ber. Gli elettori italiani sono ancora molto sensibili a queste argomentazioni, di pura retorica, senza alcun contenuto, anzi presupposto e nutrimento della disgregazione sociale.

Ma non è questo il consenso di cui abbiamo bisogno. Con un consenso di questo tipo, la politica del prossimo governo sarà in perfetta continuità con quella dei governi degli ultimi venti anni. Fermare sul serio la spesa pubblica e il debito pubblico esige provvedimenti drastici che non potranno essere presi efficacemente senza il consenso della maggioranza dei cittadini. Ma questo consenso non potrà essere quello della fazione più numerosa: il consenso dovrà raccogliersi intorno al bene comune.
Ma un progetto di questo tipo i partitacci non intendono minimamente sostenerlo. Hanno troppi interessi a tenere l’Italia divisa, disgregata, e a darne la colpa a coloro che additano come nemici.

Preferirei mille volte avere torto.

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