mercoledì 26 marzo 2014

Piero Mazzarella, Gianfranco Mauri e El Nost Milan

Trovo nei miei archivi una cosa che non sapevo di avere: la trascrizione della serata del 13 gennaio 2000 al Piccolo Teatro, organizzata dall'Associazione Amici del Piccolo Teatro, per ricordare lo spettacolo El Nost Milan di Carlo Bertolazzi messo in scena da Giorgio Strehler nel 1955, poi ripreso nel 1961 e nel 1979 (materiale pubblicato dal Piccolo qui).

A questa serata parteciparono Piero Mazzarella e Gianfranco Mauri, che avevano a suo tempo recitato nel Nost Milan. A me fu chiesto di gestire l'incontro. Nei giorni precedenti, incontrai Mazzarella (ma non Mauri) per preparare la serata e stabilimmo una specie di scaletta. La quale non fu rispettata in nessun punto, perché Mazzarella, fin dal suo primo intervento, diede alla serata un taglio esilarante che la tramutò in uno spettacolo vero e proprio, un 'pezzo di teatro', un'improvvisazione continua tra lui e Mauri, titolari irripetibili di un'arte antica. Questo è il valore della trascrizione, così come mi fu mandata da Alberto Mario Allemandi (presidente dell'Associazione).




AlLemandi: Buonasera. Di solito prometto di non parlare molto, invece questa volta qualche cosa in più la dico. Avete visto questa scelta di fotografie in cui c’è la Valentina Cortese ma c’è anche la Valentina Fortunato che è stata la prima grande interprete e non c’è niente della Mariangela Melato. Ci sono problemi di ricerca di materiale, voi sapete che è molto difficile, quando riusciamo cerchiamo di prenderlo e utilizzarlo. Questa volta non abbiamo potuto prendere altro, forse in futuro riusciremo ad avere qualche cosa dalla RAI che dovrebbe avere qualche cosa. Prima di tutto voglio ringraziare ancora una volta l’equipe tecnica del Piccolo che ci aiuta a manifestare queste nostre piccole manifestazioni e grazie anche a voi che siete venuti nonostante la malattia del secolo, pare, del nuovo secolo. Auguri per il nuovo anno. Questa manifestazione, come sapete, doveva essere dedicata a Gino Negri e alla sua musica, per motivi tecnici Filippo Crivelli non ha potuto perché è impegnato ancora a Roma per cui siamo passati su questa manifestazione. El nost Milan: ci pare molto giusto farlo in questo momento perché dopo il successo del Festival d’Europa sembra giusto riprendere questo concetto dei Nost Milan, questa valorizzazione di Milano e del suo teatro che è stata fatto qui al Piccolo Teatro. Adesso ve ne parlerà Acerboni che è specialista di Bertolazzi e di tutto il teatro milanese perché è un insegnante alla Statale di Milano e si occupa di queste cose. Purtroppo Valentina Cortese non viene perché non si sente bene, aveva dei problemi e noi la ringraziamo molto ma faremo qualche cosa con lei più a lungo. Lamberto Pugelli sta provando le luci dell’Adriana Lecouvreur alla Scala ma ha giurato che se riesce a venire cinque minuti arriva: non so cosa succederà. Comunque adesso sono lieto di presentarvi… dovrebbe entrare il professor Acerboni, che se entra lo salutiamo, che presenterà. Poi abbiamo Gianfranco Mauri, che è una delle colonne del Piccolo Teatro. E poi abbiamo Piero Mazzarella, altra colonnissima del nostro teatro e in particolare         Ringraziamo tutti…
Mazzarella: Ma un tavolo costava caro? Ci sono sei sedie, siamo in due, non c’è un tavolo.
Mauri: E’ che deve appoggiarsi per addormentarsi.
Mazzarella: Io rischio di addormentarmi soltanto quando parli tu e basta.
Mauri: Te l’ho detto prima. Ronfa sempre.
Mazzarella: Perché, ve lo prestavo io, io ne ho tanti.
Mauri: Guarda, non ti basta questo qui?
Mazzarella: Ma non è un tavolo!
Mauri: E’ un tavolino.                        
Mazzarella: Ghe nanca un pu de pansceta. Non c’è niente. Le cose fatte in economia, ragazzi. Come siamo finiti in basso. E’ lei che deve parlare?
Acerboni: Adesso sì.
Mazzarella: Si sbrighi perché io ho le prove, vengo dalle prove e rivado alle prove. Scusino eh. Dai, fai un po’ alla svelta. Lui ha niente da fare, va bene, ma mi lavori stasera, su. E’ stato per fregare a lui il primo applauso, avete capito? Se no li beccava lui, il suonato qui di Erba. Parli, parli, le diamo il permesso.
Acerboni: Questo era un inizio all’improvvisazione. Quello che, presentando questa serata, mi sembra anche singolare e curioso da dire è che comincia il Duemila, che non è il nuovo secolo, però all’inizio di questo secolo, e insomma nel Duemila parlare ancora di dialetto milanese è una cosa divertente perché all’inizio di questo secolo lo si dava per morto. C’è una lettera inedita di Boito che proprio pochi giorni prima della morte di Bertolazzi, in un tentativo di dare vita a una nuova compagnia in dialetto milanese, diceva delle cose che adesso leggo: “Non credo all’avvenire del teatro dialettale. Desidero ingannarmi ma non ci credo. I dialetti scompaiono (chi intende più il Porta?), i dialetti vanno fondendosi nella lingua nazionale, perdono le loro caratteristiche, i tipi stessi, i modelli dei teatri dialettali non si trovano più, non esistono più macchiette”. Questo lo diceva Boito nel 1916 e sembrava una specie di de profundis del teatro ma anche, direi, della lingua milanese. E in un certo senso aveva anche ragione, forse per quanto riguarda la produzione di commedie, ma non per quanto riguarda la cultura che una lingua ha dentro di sé. Quello che è cambiato quando Strehler ha deciso di mettere in scena El nost Milan nel ’55, ma aveva deciso prima, poi non l’ha fatto subito, era già una delle commedie papabili per la stagione del ’47, poi ha continuamente rimandato, era cambiata Milano, soprattutto, erano passate due Guerre Mondiali, l’industrializzazione, che nel Bertolazzi ne El nost Milan era un fenomeno presente ma iniziale, l’industrializzazione era avvenuta completamente, e così l’immigrazione, ne El nost Milan ci sono già dei personaggi immigrati, da Pasqualino napoletano a Luisin brianzolo, poi ci sono dei veneti… Come? Bergamasco… era completamente avvenuta. Quindi anche l’immigrazione è un fenomeno che ha trasformato la città. E la città stessa era cambiata. El nost Milan è una commedia che si svolge in quattro ambienti reali della Milano del tempo: di questi quattro già un anno dopo, due anni dopo la rappresentazione, la prima rappresentazione è del 1893, uno non esisteva più, il più caratteristico, il Tivoli, quello del primo atto. Al tempo di Strehler oltre a quello era saltato, era scomparso anche gli asili notturni, che si trovavano in via Pasquale Sottocorna, era una costruzione del 1884 finanziata da Edoardo Sonzogno, l’editore, che aveva fatto due reparti, uno femminile e uno maschile e li aveva chiamati col nome dei genitori, Teresa e Lorenzo, e c’era anche la sala di lettura negli asili notturni, ma non c’era più. Quelli che resistevano, all’epoca e resistono ancora adesso, sono questo, il palazzo del Broletto, e le cucine economiche che si trovavano in via Melchiorre Gioia, c’è una palazzina.
Mazzarella: Si trovano lì ancora, non le hanno spostate.
Mauri: Sono lì.
Acerboni: La cosa singolare è che Strehler di due atti esistenti, delle due ambientazioni esistenti, le cancella perché riunisce i due atti corrispondenti, il secondo e il terzo atto, li riunisce in uno solo e lascia in sostanza intatti quegli ambienti che erano scomparsi. Ora, è anche vero che poi dopo la rappresentazione del ’55 intorno a Bertolazzi, intorno al dialetto milanese e intorno al teatro milanese rinasce un interesse che prima era scomparso. Bertolazzi, che è morto nel 1916, era già stato superato: El nost Milan è del ’93 ed è probabilmente…
Mauri: Dopo la lettera del Boito.
Mazzarella: E’ stato lui che l’ha ammazato.
Mauri: Dopo la lettera del Boito è morto.
Acerboni: Dopo la lettera del Boito è morto. Era un teatro che non si era riuscito a sviluppare oltre, il teatro borghese in dialetto non aveva molte gambe, El nost Milan è un po’ la punta più interessante di una tradizione milanese che era partita nel 1870 con Cletto Arrighi che aveva dato vita ad un teatro che si chiamava proprio Teatro Milanese, prevalentemente comico, e che aveva dato poi quel grande attore che era Edoardo Ferravilla, poi Sbodio, poi Carnaghi, e Bertolazzi è l’ultimo autore che si inserisce in questo tipo… in una tradizione che però, con la fine di quel secolo, si affievolisce.
Mazzarella: Sì, però bisognerebbe dire anche, parlare di Cletto Arrighi, di Giraud, non si può lasciarli fuori. Sbodio, Ferravilla, Carnaghi, poi c’è Giraud: non costa molto dire due nomi in più, eh. Scusatemi, sono un perfezionista.
Acerboni: Non c’è problema. Cletto Arrighi, o Carlo Righetti, era un romanziere che a un certo momento ha compreso che a Milano c’era l’esigenza, per una città che si stava trasformando, di un teatro specchio, e aveva indovinato che rivalutare, recuperare e aggiornare soprattutto la tradizione del teatro dialettale poteva essere una chiave utile. L’aveva fatto scrivendo in cinque o sei anni una trentina di commedie, molto divertenti, anche un po’ ripetitive, e aveva lanciato una serie di attori che erano praticamente debuttanti, fra i quali appunto Ferravilla, poi più tardi Edoardo Giraud e Gaetano Sbodio i quali, dopo qualche anno prendono il sopravvento nella gestione di questo teatro e l’Arrighi viene estromesso e proseguono un’attività trentennale. Il Teatro Milanese che si trovava in Corso Vittorio Emanuele viene demolito nel 1903. E fino ad allora le scene di quel teatro vengono calcate da Ferravilla e compagnia che ottengono un successo straordinario perché, in un’epoca in cui il teatro italiano era fondato sulle compagnie di giro, che rappresentavano sette, otto, dieci commedie all’anno, Ferravilla ne faceva trenta stando otto – nove mesi nello stesso teatro. Ciò che differenzia Bertolazzi e Sbodio Carnaghi, con i quali poi Bertolazzi stabilisce una collaborazione continua, è il fatto che, mentre Ferravilla si occupa prevalentemente di rappresentare un repertorio prevalentemente comico che gli permetteva di improvvisare, di realizzare le scene a soggetto per le quali era particolarmente tagliato, Bertolazzi, con Sbodio e Carnaghi, decidono di dedicarsi a una rappresentazione della realtà di Milano, quindi, con El nost Milan che è appunto il capolavoro di questo genere, cercare anche di cogliere quelli che sono i problemi di una società, di una città che era indubbiamente in un periodo di grande trasformazione e anche di grandi problemi: sullo sfondo dell’inizio dell’industrializzazione ci sono i problemi di emarginazione, di disoccupazione, i primi problemi diciamo moderni in una città che in Italia era la prima a vivere e anche  a promuovere lo sviluppo della società in questa direzione. Però, da un punto di vista drammaturgico e teatrale, questo tentativo di fare un teatro consapevole, moderno e critico della società, di fare questo teatro in dialetto, è un tentativo che ha appunto poche gambe. Dopo pochi anni Bertolazzi non riesce più a trovare degli spunti per andare avanti su questa strada: il dialetto continua a usarlo ma in ambientazioni più borghesi, dove il dramma non è un dramma sociale ma un dramma intimo, diciamo – forse non è molto corretto dirlo – ma sono un po’ delle commedie scritte alla Praga, alla Giacosa scritte in dialetto. E poi, con il nuovo secolo, Bertolazzi rinuncia al dialetto e scrive in lingua, però – vendetta della sorte – per veder rappresentate le sue commedie, delle quali L’egoista è forse la più famosa, le deve tradurre perché ormai si è fatto una certa fama come autore di successo in dialetto e le sue commedie in lingua gli attori le vogliono tradotte, e quindi L’egoista viene tradotto in veneto per Ferruccio Benini e altre commedie, che sono scritte originariamente in italiano, devono essere tradotte per essere rappresentate. Tornando a Strehler, Strehler nel momento in cui sceglie di rappresentare El nost Milan si trova di fronte a un rischio e a una sfida. Il rischio è quello di fare del bozzettismo perché El nost Milan è effettivamente una commedia impostata su una rappresentazione realistica degli ambienti: funzionano da sfondo per un dramma, ma il rischio del bozzettismo c’è, del realismo c’è. Oltretutto un realismo in ritardo perché appunto, come dicevo prima, quella Milano, la Milano rappresentata da Bertolazzi, non c’era quasi più e comunque era magari anche difficilmente riconoscibile per gli stessi abitanti di Milano. E poi c’era un secondo rischio: il rischio del dialetto, perché nel 1955 il dialetto era ancora parlato però le cronache raccontano che già una buona parte del pubblico faceva fatica  a capire certe battute. La sfida era quella invece quella di recuperare un testo che aveva delle grandi potenzialità teatrali e aveva appunto, tolti i riferimenti troppo realistici o per le meno non concentrandosi troppo sul dato realistico, aveva delle grandi capacità di rappresentazione comunque di una realtà moderna, cioè era un testo che poteva assolutamente essere attualizzato, perché rappresentava dei problemi che anche nella Milano di allora, cioè del ’55, esistevano: il gioco del Lotto, la speranza ultima dei poveri, la miseria, la disoccupazione – non dimentichiamoci che Milano nel ’55 usciva, forse proprio allora…
Mazzarella: Non è cambiato niente in parole povere, no? Quando c’è miseria il gioco è l’ultima spiaggia, dico, anche oggi, no? Allora, non succede niente.
Acerboni: No no, infatti. Tant’è vero che appunto Strehler la ritiene attuale anche nel ’79 questa commedia, si tira addosso parecchie critiche però la rifà anche nel ’79, in un’epoca in cui le cose erano cambiate anche parecchio rispetto al ’55. E a questo proposito, cioè sulla distanza che separa la prima dall’ultima rappresentazione, perché la prima è del ’55, la seconda è del ’61 e la terza è del ’79. Nel ’77 c’è un articolo di Testori, di Giovanni Testori sul Corriere, di cui vorrei leggere alcune parti. E’ un articolo nel quale Testori, in qualche modo, rimpiange gli anni Cinquanta e Sessanta di Milano, anni difficili ma molto produttivi, e dice: “E chi – dite – chi ripeterà più per noi il miracolo de El nost Milan strehleriano? In che modo risentire un’altra volta, magari nell’ora in cui la malinconia più ci punge o ci assedia, la voce della Cortese, vera anima di nebbia vagante tra il Tivoli e le Cucine Economiche? Risaliva quella voce da tutta l’oscura dignità, da tutte le oscure rogne, gli oscuri magoni delle nostre madri, donne offese eppure capaci di infinito amore, Valentina bianca e lunare Valentina. Chi alzerà adesso la mano per scrivere un’altra volta “No”, se noi che abbiamo vissuto quegli anni ci ritiriamo o ci rifiutiamo di dare un aiuto a che quel “No”, con altra forza e altri colori, può ancora graffiare sui muri della cosificazione in cui Milano sta per essere incarcerata mentre, gemendo, dice che non vuole?”. Queste parole possono essere lette, diciamo come una specie di preludio alla terza edizione de El nost Milan, un’edizione che viene anche molto criticata proprio perché, da un certo punto di vista, secondo alcuni critici, di artistico, di nuovo, non c’era nulla o c’era poco. Ma per ripercorrere forse la storia di questo spettacolo, uno spettacolo che ha segnato certamente una tappa importante nel percorso artistico di Strehler, uno spettacolo a cui è seguito un recupero di alcune parti della tradizione drammaturgica in dialetto milanese, perché poi al Piccolo di Bertolazzi sono state fatte anche L’egoista, La Lulù era stata fatta prima, L’egoista, e poi in dialetto L’eredità del Felis di Illica, di Albini e Bettini La guera e I vincitori, con dei salti anche all’indietro fino al Maggi, dei Consigli di Meneghino e De Lemene, La sposa Francesca (uno spettacolo di non molti anni fa)…
Mazzarella: I consigli di Meneghino no, Il barone di Birbanza.
Acerboni: Il barone di Birbanza. La sposa Francesca, uno spettacolo di Lamberto Puggelli di qualche anno fa. Ma appunto per ripercorrere queste tappe, io darei immediatamente la parola a Gianfranco Mauri che, se possibile…
Mauri: Sì sì, guardavo lui perché subito… E’ capacissimo.
Mazzarella: No no, io correggerò solo le inesattezze.
Acerboni: Sì perché ha debuttato al Piccolo Teatro proprio con El nost Milan e quindi, siccome prima del debutto, poco prima del debutto ci sarà stato un incontro con Strehler, magari era il caso anche di partire da lì, dall’incontro con Strehler.
Mauri: Sì, io debutto nel ’55 con El nost Milan e lui arriva anni dopo naturalmente.
Mazzarella: Sono molto più giovane.
Mauri: Ma lui aveva debuttato già in altre cose, faceva già il teatro, io invece facevo l’oratorio, la filodrammatica, le studentesche, quelle cose lì. Ma il mio primo lavoro da professionista è stato proprio El nost Milan. Niente, una storiella in fondo: disperato perché avevo fatto delle domande di presentazione in altri teatri, avevo sempre costantemente ricevuto dei no, eccetera, passando lì, anzi ero a prendere le sigarette a quel bar lì d’angolo, vedo sul portone qui del Piccolo Strehler, che io avevo visto una volta in una conferenza mesi prima, attraverso di corsa la strada, vado al portone… “Scusi, lei è il signor Strehler?” non sapevo nemmeno che bisognava dare del dottore, perché i registi sono tutti dottori “Lei è il signor Strehler?” lui mi guarda e dice: “Sì perché?” “No, le spiego la mia storia…” “Guarda, va lì, c’è lì la Maria, da’ il tuo nome che io fra qualche giorno devo fare delle audizioni”. E così con lui feci questa audizione proprio qui e sapevo che dovevano fare El nost Milan, che io non conoscevo…
Mazzarella: Figuriamoci:
Mauri: …ma sapevo che bisognava conoscere il dialetto.
Mazzarella: Uno che nasce a Erba cosa volete che capisca. Contadino, le lumache conosceva.
Mauri: Conoscevo il don Alberto, che era il mio primo regista e autore.
Mazzarella: Un prete conoscevi.
Mauri: Don Alberto non era certo il nobile, era un don, un don prete. E allora mi preparo andando a vedere alcune poesie in milanese, una poesia bellissima del Cesare Mainardi, te la ricordi?
Mazzarella: Sì conosco.
Mauri: Dove si parla di un muscunin, della marchesa che lo spiaccica alla fine dopo aver parlato di poesia, lo schiaccia sotto un piede “col pescin poetic lo spetascia”. E io mentre dicevo ‘sta roba, che era una cosa buffa, sentivo ridere e mi preoccupavo “Riden, non c’è più niente da fare, oramai posso andar via di corsa”.
Mazzarella: La tua faccia faceva ridere. Vuoi che piangano?
Mauri: No, è perché la roba era abbastanza…
Mazzarella: Divertente.
Mauri: “Un magher, tisigusc d’un muscunin dopu stava vint ur in agunia l’aveva incumincia a sgarbià un sciampin e pü pian pian…”
Mazzarella: La racconta tutta adesso.
Mauri: No, è un pezzettino per dire che era una cosa buffa. Morale, mi dice: “In lingua non sai niente?” e faccio un pezzo dell’Uomo dal fiore in bocca, cosa che tutti noi abbiamo portato nelle audizioni…
Mazzarella: E male.
Mauri: E poi mi ha tenuto mezz’ora a chiacchierare sul mio passato, su cosa avessi fatto, eccetera eccetera.
Mazzarella: Sull’Inter.
Mauri: Vado, corro dalla Maria, metto il numero di telefono, che qui ‘sta Maria era la centralinista, l’amministratrice, era lei, sopra c’era la Vinchi, ma adesso si va lì alla nuova sede, saranno in vot cent, na roba del genere; io non conosco più nessuno.
Mazzarella: Sembra di essere a Cape Canaveral.
Mauri: Niente, vengo preso per El nost Milan. E sempre su questo palcoscenico, su un grande tavolo, perché eravamo in tanti, non distribuisce, se non agli attori principali, c’era Valentina Fortunato, c’era Carraro, c’era la Mara Reveri, c’era Rinaldi: insomma, era un gruppo che faceva veramente paura dalla bravura.
Mazzarella: Bravi, bravi. Irripetibili.
Mauri: Io mi ricorderò sempre la bravura del Pampurini: era un oste di via Scaldasole, aveva la trattoria dove andava spessissimo a mangiare Ferravilla, l’ha conosciuto lì el ga dit: “No, ti te venit a recitar con mi” “Ma va mi avè da recità” “No, ti te venit a recitar con mi”. L’ha portato, l’ha fatto recitare ed era… non bisognava fargli imparare nulla a memoria, perché lui ‘l ghe dava de pesciada alla cupola del suggeritore perché  “è un rompiballe quel lì”. Strehler è riuscito anche a fargli imparare questa parte meravigliosa, devo dire, del reduce del ’48: era veramente un poema, con delle cose anche…
Mazzarella: …di una semplicità incredibile, ma la sua forza era quella lì: la forza degli attori di quel tipo lì è che non recitano mai, parlano, perché in teatro difficile è parlare non recitare, tutti sanno recitare, il primo pirla che passa recita…
Mauri: Anche il secondo.
Mazzarella: Passa tutta la vita a recitare, è lì il guaio. Parlare siamo in pochi.
Mauri: No, te minga vist, fa nient, non hai apprezzato.
Mazzarella: No ma ho proprio sentito l’intonazione, capisci. Tu non sei solo da vedere, sei anche da sentire.
Mauri: Mentre i personaggi secondari, che in teatro non è…
Mazzarella: Quanto parlano…
Mauri: Io non voglio farti andare alle prove, non hai capito.
Mazzarella: Tra poco escono i lattai.
Mauri: I personaggi secondari nei grandi autori non esistono, l’è minga vera. Sì, ci sono quelli che parlano di più o quelli che parlano di meno, qui lo può dire Piero: il successo che io ho avuto ne El nost Milan, contando le battute sono sette.
Mazzarella: Però ragazzi; ora non scherzo più. Era irripetibile ne El nost Milan, veramente.
Mauri: Ecco, cancelà.
Mazzarella: No cancelà, perché credo che non si possa fare più di così.
Mauri: Ma Piero, lo sai che ci vogliamo bene e ci prendiamo sempre in giro proprio per quello.
Mazzarella: Io mi ricordo Parigi, io mi ricordo, perché qui giochiamo in casa, ma  a Parigi noi parlavamo in milanese e abbiam preso gli stessi effetti che abbiam preso a Milano e gli stessi applausi. Io al secondo atto son saliti a toccarci per vedere se eravamo veri, ma porca vacca.
Mauri: A proposito di questo, pensate che il pubblico francese sentiva nel secondo atto l’odore di minestrone che non esisteva. E’ questa la potenza del teatro, la magia, incredibile.
Acerboni: Ho trovato una recensione di uno spettacolo… dello spettacolo fatta  a Roma nel ’61, quindi la stessa edizione che poi è andata  a Parigi.
Mazzarella: No, no, no, no. Sbaglio enorme.
Mauri: Lui non c’era.
Mazzarella: Io non c’ero. Io ho fatto El nost Milan con le due Valentine, con la Fortunato prima e con la Cortese dopo.
Mauri: Dopo c’è stata anche la… la… la…
Mazzarella: L’ultima, quella non mi interessa.
Acerboni: No, io dico a Roma nel ’61… lo spettacolo va a Roma nel ’61 e una recensione dice  così: “I romani hanno capito che c’era er fattaccio, che ci scappava er morto, ma per il resto sono allo scuro della vicenda e sono usciti, cioè dopo il primo atto una parte del pubblico non ha capito…
Voce dal pubblico: Sono dei maleducati.
Mauri: Ma no, ma non è questo. Non è questo. A Roma il pubblico non è venuto perché parlavano in milanese.
Mazzarella: E basta.
Mauri: Ma quei pochi che sono venuti a vedere…
Mazzarella: Erano entusiasti.
Mauri: Erano entusiasti. Davano fuori di matto. Ecco, quindi quel critico lì è un falso. Comunque, a parte…
Mazzarella: Ma la faccenda più grave, ragazzi, adesso, già che ci siamo, io spero che sia giù questa signora, è che non capiscono niente e non sanno niente. Io ieri ho letto sul Corriere della Sera, e non parlo di un giornale sconosciuto, di una giornalista che parlava del Gerolamo con delle inesattezze incredibili. Io volevo trovarla e dirle: “Signora…”. Dice che il Gerolamo è stato fatto per i burattini: signora, i burattini non esistevano neanche a quell’epoca lì. L’ha fatto il Mengoni, l’architetto della Galleria, era un teatro d’opera sotto Maria Teresa d’Austria, non ne parla neanche. I Colla hanno fatto trent’anni al Gerolamo e basta, ma lì è passato tutto il mondo. Ci sono i manifesti di quando si pagava un baiocco, quindi non siamo nel Novecento quando si paga un baiocco. E allora perché non si prendono la briga di andare a informarsi sul serio come stanno le cose. Diciamo: i milanesi sanno pochissimo del loro paese e non si sono mai curati di sapere di più. Per non parlare di cose lontane ma di cose controllabili: nel ’59 la Fondazione Cini e l’altra, la… la… fanno la storia di Milano, ventiquattro volumi…
Voce dalla sala: Treccani.
Mazzarella: Treccani …che costavano un capitale. Io l’ho comprata a rate. Hanno fatto cinquemila storie di Milano – cinquemila ventiquattro volumi: sono passati cinquant’anni, di più, cinquantasei sono passati, ce ne sono ancora duemila copie: vuol dire che i milanesi non ne hanno comprate neanche la metà, sì un po’ più della metà, in cinquant’anni. Allora vuol dire che non sanno niente. E’ perché i libri si comprano se il colore sta bene con la nostra biblioteca, mettiamo rosso e verde perché stanno bene col marron noce e basta, poi leggen no, non hanno neanche le pagine tagliate, questi emeriti coglioni dei milanesi. Sissignori, noi possiamo dire che i milanesi son dei coglioni, perché noi questa città l’abbiamo amata e continuiamo a amarla disperatamente, come una madre, un’amante, un’isola, un rifugio. E quindi vediamo anche i difetti.
Voce dalla sala: E allora tu sai che al Gerolamo non c’erano i burattini…
Mazzarella: Ci son stati sì.
Voce di prima: …c’erano le marionette.
Mazzarella: Sì vabbè, adesso il nome è diverso. Ma per trent’anni soli però, è stato un passaggio, e basta. Non è nato per i burattini – marionette o altri spettacoli: è nato come teatro di corte; e c’è una notizia sotto che dice che “adesso lo rifanno…” e dice altre palle, perché Ceschina è morto e l’erede universale è la moglie che è una cinese, alla quale hanno fatto causa tutti gli eredi ma l’hanno preso in saccoccia. E la cinese, che è erede universale, l’ha ciappà tuti i miliard e si è purtà via. Non rifanno niente, sono palle che vi raccontano tranquillamente, perché noi le beviamo tutte ste palle. Ma parliamo de El nost Milan…
Mauri: Vogliamo tornare appunto…
Mazzarella: Sì, è meglio, perché io mi incazzo sennò.
Mauri: Primo te ciappet rabbia, secondo l’allunghi e arrivi tardi alle prove, cosa che a te non è mai successo… E niente, questo per dire, per tirarla un po’ in breve, che mi sente parlare…. dico: “Scusi” (avevo imparà a ciamal duttur) “Scusi dottore, lì c’è scritto dialetto bosino” che sappiamo è il dialetto di Varese, ma non è tanto lontano dal mio, che è brianzolo”. “Prova a leggerlo, prova a leggerlo”. Infatti ho letto sta roba, in brianzolo, e subito mi ha affibbiato la parte del Luisin. Ragazzi, il Luisin mi ha portato anche bene, nel senso che mi ha portato buono, fortuna, perché da allora io son sempre stato con Strehler per circa quarantadue anni, facendo altre cose, se pensate che proprio quell’anno, anno teatrale 55/56, Grassi, dopo il successo del Nost Milan, mi dice – perché allora non si firmavano i contratti di sei mesi, contratto… finivi il lavoro, nel caso te lo rinnovavano,– mi fa rinnovare il contratto per L’opera da tre soldi, mi fa rinnovare il contratto per Dal tuo al mio di Verga, e poi mi chiama e dice: “Guardi che Strehler ha deciso di farle fare il Brighella nell’Arlecchino”. Me l’ha dato come fosse un premio meraviglioso: io Arlecchino non l’avevo mai visto, non sapevo neanche di che cosa si trattasse, e ho fatto finta: “Ah sì, ah sì”. E poi guarda che putanada è saltà fora con Arlecchino, eccetera eccetera. Però, a parte il fatto della fortuna, aver girato tutto il mondo, aver portato in giro un altro spettacolo meraviglioso…
Mazzarella: Un altro spettacolo irripetibile, Arlecchino.
Mauri: …sono convinto che, se il Piccolo Teatro avesse avuto, in quegli anni, la forza economica di portare in giro per il mondo El nost Milan, El nost Milan sarebbe in giro ancora adesso come l’Arlecchino. Questa è la mia convinzione.
Mazzarella: Ecco perché bisogna riconciliarsi con Milano rifacendo El nost Milan. Milano è stata offesa, ferita, dimenticata dal fatto che sembra che il dialetto sia una cosa di serie B, poveracci. Io una volta mi incazzavo, adesso no, provo una malinconica collera verso ‘sta gente, anche perché io, invecchiando, ho peggiorato moltissimo. I miei figli, no ho solo cinque, mi dicono sempre che io invecchiando fra il pensiero e la parola non metto più la dogana del buon senso. Son talmente al di sopra delle miserie che mi va ben inscì, non cambio neanche se m’ammazzano, mi va benissimo. Io sono uno zingaro, un irregolare, uno che ha fatto sempre quello che ha voluto; difatti la ricchezza è quella lì: mio figlio, l’altra sera, proprio mi rimproverava perché io mi son lamentato, ho detto: “Tu guarda quello lì” - accennando uno in televisione - “alla mia epoca non entrava neanche dalla porta di servizio, adesso m’ha dit che guadagna quater miliard all’anno - in un ann che guadagna quel che num em minga guadagnà per tuta la vita” E allora mio figlio mi ha detto: “Papà, ma devi calmarti un attimo perché guarda, tu sono quarantacinque anni (per non dire cinquanta) che fai quello che vuoi, dove vuoi, quando vuoi, se hai voglia, se ti gira, per quanto tempo, e in più hai mandato a dar via il culo a tutti i potenti d’Italia, sei tu che sei ricco, quello è uno che ha i soldi” El g’ha rasun lü. Però è bello.
Mauri: Come hai fatto… Quello che mi chiedo è come hai fatto a fare un figlio così intelligente. Mistero! Per me l’è minga too.
Mazzarella: Ma pensa, questo è il peggiore. Può darsi benissimo perché io ho tre mogli, lo sai.
Mauri: Appunto.
Mazzarella: Ho avuto tre mogli, sia chiaro. Ne ho una sola, perché la mor no oltretutt, questa.
Mauri: Mai, le ultime non muoiono mai.
Mazzarella: La g’ha vent ann meno de mi, cume la fa a morì. Pensate, io ho una figlia di quarantasette anni e una moglie di quarantanove, perché la mia prima figlia – la prima è una figlia, è una femmina, il maschio ne ha quarantaquattro, son della prima moglie, dalla seconda non ne ho avuti, son divorziato, la prima è morta – e chesta chi la mor no neanca a piangere. Io ho tentato di cambiarla con due da venticinque, ma fa niente. Adesso posso raccontare io come sono arrivato a fare El nost Milan? A lei non è che dispiaccia?
Acerboni: Anzi.
Mazzarella: Perché ha parlato un bel venti minuti, tanto eh.
Mauri: Era lì con l’orologio in mano.
Mazzarella: Noi, in genere, non permettiamo mai che gli altri parlino molto. Con gli altri normalmente fanno una fatica a infilare le loro parole fra le nostre; invece lei l’abbiamo concesso perché ha la barba.
Mauri: Ma non ce l’ha fatta.
Mazzarella: Io avevo già fatto di Bertolazzi Il focolare domestico e La zitella. Intanto che facevo Il focolare domestico con Puecher, Strehler una sera è venuto a vedere lo spettacolo e dice: “Mi piacerebbe che venisse a fare El nost Milan”. Mi fanno questa proposta, però il cast era pronto già e io ho detto, molto candidamente: “Io per venire a fare El nost Milan al Piccolo Teatro, anche se c’è una parte di dieci parole, l’accetto”. Ed è stato così. Io ho provato il primo giorno facendo una parte di dieci parole: il giorno dopo facevo uno dei protagonisti. Forse perché mancava una figura, non so; è stata anche la mia una fortuna. E poi dopo mi sono innamorato di tutto quello che era lui e di chi era circondato, perché qui non è che lui aveva delle persone qualsiasi, non solo come attori, attrici, ma come tecnici… tutto qui era tutto perfetto. A qualcuno dava fastidio, perché Milano era sempre prima, ghe nient de far. I più grandi spettacoli del mondo li ha portati in giro lui, sono nati qui, su queste tavole: qualcuno non l’ha mandata giù. E lui ne soffrì moltissimo. Poi diventammo molto amici, anch’io ero molto amico di Giorgio. Gli ultimi anni, voglio dire, gli ultimi quaranta giorni un po’ felici li ha passati con me a Uscio. E’ venuto a Uscio a curarsi un attimo, siamo stati quaranta giorni insieme e lì ho sentito tutte le sue angosce, le sue amarezze. Tu pensa, noi che l’abbiamo conosciuto, come si fa a dagh del ladro a Giorgio. Io penso molto candidamente che Giorgio avrebbe sperperato l’eredità di sua madre, se ne avesse avuta una, per metterla qua dentro. Ti ricordi a Parigi quando si incazzò e disse – vedendo la cabina di regia di Parigi: “Perché io a Milano non ce l’ho?” Giorgio non ha avuto figli: quest chì l’era el so fioeu, e i figli si viziano anche, felici di viziarli. E lui questo teatro l’ha viziato, e ha viziato anche noi, perché dopo averci mandato a letto alle cinque di mattina, lui s’è fermato a farsi l’albero di Natale per il giorno dopo. Ti ricordi? “Il vostro torturatore”. Al debutto di Parigi, alle otto e mezza, alle sette e mezza io avevo una febbre a quaranta e due, una banale influenza, e lui è venuto nel mio camerino el m’ha dit: “Sospendiamo”. “Ma te se matt? Sospendiamo. E’ una vita che siamo qui a tribolare… dammi un antigrip…”. E ho bevuto questa… come la nostra Aspirina, quel che l’è, e un bicchiere di vino brulè; dopo mezz’ora sentivo l’acqua che usciva dalle scarpe, però era tutto il sudor che andava via, mi stavi ben; lui era fra le quinte, era attaccato qui: “Come stai?”. “Ma sto bene Giorgio, sta tranquillo”. Dopo un certo punto, come si apre il sipario c’è il Tivoli, no?, i francesi, che avevano senz’altro letto la storia - perché sono molto più preparati di noi, perché leggen prima, s’informano prima - a un certo momento lui mi dice: “Non ridono”. E io, da quella faccia di merda che sono: ”Per forza, non sono ancora uscito io, come fanno a ridere?”  “Perché?” “Perché adesso io esco, prendo lo stesso applauso che prendo quando esco a Milano”. Difatti, alla prima tiritera del Dundina, vien l’applauso.
Mauri: Ragazzi, c’era Strehler che diventava matto: come entrava il Dundina in scena: “Come fa? Ma come fa? Ma come fa?” - era bravissimo, quindi non era una disperazione - “Come fa a fare quella camminata? Ma è straordinaria! Ma guardalo, guardalo!”. E infatti aveva una camminata… Alla fine glielo ha chiesto: “Senti Piero dimmi come fai a fare questa camminata?”. Cuntegliela su ti: come facevi? come facevi?
Mazzarella: Mettevo dentro, in ogni scarpa, du ciucchin, sapete cosa sono i ciucchin? Le castagne secche. Avevo un po’ le piaghe, ma se faseva fatica a camminà e la camminata era perfetta.
Mauri: Quando un attore arriva a fare ‘ste cose…
Mazzarella: Io volevo raccontare solo questa cosina qua, perché ci tenevo: è un pezzo de El nost Milan. Che tu puoi entrare quando vuoi, non è che voglio assumermi l’onere.
Mauri: Io esco.
Mazzarella: Voi sapete che nel secondo atto de El nost Milan, nelle Cucine Economiche, ci sono tre momenti d’amore. Il primo amore è quello fra el Ceser, che facevo io, e la Bigetta, che la faceva la Borgo, ed è la storia di questo Ceser che è un impiegato del gas che potrebbe anche evitare di andare a mangiare alle Cucine Economiche, perché el ga el so tuscan, el sol culet bel bianc, la sua valisetina per fa i cunt, ma va a mangiare lì perché a una data ora arriva la Bigetta. E lu la ghe piase chela dona lì, ma gli piace, non le metterebbe mai una mano sul sedere: le piace proprio così, perché è piena di luce, di povertà, ma è solare. Difatti, quando sono seduti vicino, le parla del so marì, lu de la so miè; però quando lei si alza e se ne va “Ciao biscela” questo la guarda, la saluta e poi dice: “Ecco, adess andà via le andà via anca il sul”: quindi un amore pulitissimo. Più avanti c’è un altro tipo di amore: l’amore tra questi due, marito e moglie giovanissimi, che dopo pochi giorni di matrimonio son già lì a mangiare alle Cucine Economiche. E difatti le la vor mica venir denter. Lu ghe le dis: “Dai ven denter”. E i poveri, che stanno voltandosi indietro, si accorgono che sono due giovani e hanno un grande sorriso, la famosa solidarietà della povera gente. Allora questi qui entrano, lei la se setta giò a cap tavula e lui, con le monetine, va a prendere due tazze di minestrone. Ghe ne mett v’ona davanti a le e v’ona davanti a lu, e le la mangia no. “No, vori no” e lu l’ghe dis: “Che culpa ne ho mi se no trovo minga de lavurare”. Dopu poc di: “Sen già mo chi, ma se trovi no a levi su la matina...” C’è un grosso sfogo dicendo: “Non è colpa mia se non trovo da lavorare”. E piange, piange nella minestra. Allora lei, che si è accorta che forse ha un po’ esagerato nella sua violenza, la ghe cerca una man, le mani si stringono, si guardano in faccia: piangen, e poi riden, e mangian la minestra. Le mani hanno messo a posto tutto. Normalmente sono anche i piedi, perché quand du vann in lett, da un se gira per il cu e quel alter de là, dopo un po’ i pe se tucchen e fan la pace. E poi c’è il terzo amore. Il terzo amore è quello della Nina e del Togasso, che è un amore sporco, un amore ibrido, perché lei va a battere per lui, arriva a fare questo. Qui Valentina e il povero Tino erano, di una, non so, una bravura e poco. Non sono mai riusciti ad andare giù a vedersi quanto erano bravi, in quell’ angolino lì. Quella ghe diseva, con questo ditino per aria: “L’è l’amur, sta quieta che l’è l’amur”. E lì partiva un bacio di quelli veri, dopodichè c’era un silenzio e a questo punto Giorgio non era contento di questo silenzio, mancava un rumore. Pensate a quante cose aveva da pensare quell’uomo lì per mettere su uno spettacolo del genere. Invece mi s’eri proprio settà giò davanti al pubblic e avevo pensato: “Forse io sento che manca questa cosa qui” ma mica perché son pussè inteligent de lu, Perché mi g’ho da pensà alla mia roba, lu ghe n’ha domila, ma lui passando davanti, intanto che dirigeva – Parigi, eh – mi guarda e guardandomi io capisco che lui ha capito che io ho capito. E allora g’ho dit: “Se la rifacciamo un’altra volta io tento una cosa”. E allora cos’è: durante questo bacio, dove c’era un silenzio, g’avei davanti il biccier vuoi del vin e il quartin. Io invece di versare il vino a una data maniera – adesso questo qui è sbagliato perché è stretto di boccale – lo versavo dall’alto, e versandolo dall’alto faseva “plu plu plu plu plu plu” e facevo durare questo rumore quanto durava il loro bacio: il loro piacere e il so piacere del vino. Lui lo trovò molto bello e infatti si fece sempre così. Una grande gioia: “Sì sì va bene così, mostro, sei un tedesco, perché non sbagli mai”. Te se ricorda.
Mauri: C’era un altro grande amore, nelle Cucine, ed era l’amore per il passato glorioso di un reduce del ’48, delle barricate, ed era questo che faceva il grande, enorme Pampurini. Purtroppo abbiamo vissuto anche noi il reduce quando torna: vuole solo raccontare le cose che ha vissuto, non gliene frega più niente a nessuno. E la stessa cosa veniva rappresentata lì.
Mazzarella: E sulla divisa della Baggina portava la medaglia lui.
Mauri: Certo, la medaglia al valore. Come trovava qualcuno, e allora c’era solo uno spazzacamino – che faceva Roberto Pistone – che lo stava a sentire; e lui cominciava con questa voce: “Figuret dunca Gasparin”. E lì che stava a sentire c’era anche il Feldman che faceva il vetturino: intervieni tu a fare il vetturino, la carossa e el carrett. Non te la ricordi? “Figuret dunca Gasparin…”.
Mazzarella: Forse forse.
Mauri: “Che nun s’erem de dre d’una carossa larga minga pussè de sto tavol”.
Mazzarella: “Per mi l’era un carrett”.
Mauri: “Allura l’era un carrett”. “Ah, una carossa!”. “Un carrett!”.
Mazzarella: “Un carrett!”.
Mauri: “Una carossa!”
Mazzarella: “L’era un carrett!”.
Mauri: “Ho detto una carossa!”. “E va ben, va ben…”
Mazzarella:  “L’è una carossa”. C’era questo grosso gioco, adesso non me lo ricordavo più.
Mauri: No, finiva così: “E va ben, va ben, va ben, ste calmo. Era una carossa. Per me l’era un carrett”.
Mazzarella: E’ vero, è vero.
Mauri: Era stupendo, stupendo. E quando entrava la guardia – che faceva il Montini – il tredes de taroc, che era la guardia comunale…
Mazzarella: Che vuol dire la morte il tredes del taroc.
Mauri: …che faceva il suo giro e come sentiva “E allora nun” gli austriaci sparavano “E allora nun a conti i sass” “Vuè se scalda, eh, l’eroe della sesta giornata”, e questo diventava matto.
Mazzarella: Madonna, quando mai.
Mauri: “Cos’è? Eroe della sesta giornata a mi?  Sa no che mi g’ho il passaport in regula”. Chissà cosa volesse dire con questa roba.
Mazzarella: Perché lui era un eroe di tutte e cinque le giornate, non della sesta. Ma il più bello, scusami, ti ricordi quando lui mangiava e il povero Biraghi ghe diseva: “Ei lu, se mangiand il minestrun, el trova denter una quai cudega, me le daga pure a mi, se ‘l fa fadiga  a mastegarla”.
Mauri: “In sta minestra se trovan denter i marbic de cuteghe, ghe disi mi”. S’incazzava sempre.
Mazzarella: “Mi g’ho una bocca che mastega… i biasci anche i sassi”. Che bello, che bello.
Mauri: “Minga donà la cudega, anca un purscel intreg mi se mangi”. E s’incazzava sempre, costantemente. Ma di una bravura, di una verità.
Mazzarella: Noi stiamo parlando di queste bravure singole. Ora, queste bravure singole, messe tutte insieme da quel mostro che era il nostro Giorgio, pensate cosa veniva fuori. Perché ne parlavamo prima di venire in palcoscenico: la magia di Giorgio non era una cosa qualsiasi, era quella di capire quello che voleva la gente lì, perché lui ha sempre lavorato per quelli seduti lì. Culturalmente forse c’era qualcuno che poteva anche essere più affascinante in maniera dialettica, ma quella gente lì, quando si alzava dal tavolo delle prove, si cominciava ad andare in piedi e muoversi, non avevano più le idee tanto chiare. Invece lu l’incuminciava alora. Lui ne El nost Milan faceva tutte le parti, uomini e donne, tutte.
Mauri: Pensate che, raccontavo appunto prima di venire giù, c’era un grosso otorinolaringoiatra, che ho conosciuto per motivi di corde vocali, e mi diceva: “Ma sa che ho scoperto una cosa, Mauri? Secondo me, tranne Strehler, sono tutti registi” e a detto una grossissima cosa. Perché Strehler non era solo un regista: il regista possiamo farlo tutti. E la poesia? Era un poeta. Quindi sintesi e chiarezza. Perché nessuno mai è uscito da questo teatro chiedendo: “Ma cosa voleva dire quello lì facendo così?”. Era tutto chiaro. Anche ai poveracci ignoranti, come dicevi tu prima, quelli che hanno solo i libri, perché il teatro è un’altra cosa, non è una questione di libri, letti o non letti, in biblioteca. E’ una questione di sensibilità. E’ questa la magia del teatro. E’ questa grossa cosa che capita a noi recitando: facciamo il gioco dei bambini, tentando di far diventare bambini l’intera platea, per giocare assieme.
Mazzarella: E’ logico, ma è la cosa più difficile.
Mauri: E’ la cosa più difficile.
Mazzarella: La cosa più difficile è parlare semplicemente. Coloro che adoperano… i funamboli della parola, i re dell’arzigogolo, del dentro e fuori, del politichese, la loro magica invenzione è quella di parlare senza dire niente. Ma parlate un po’ con i bambini: al terzo perché, che cosa rispondete? Al terzo perché! Ecco perché bisogna prenderli ad esempio. Il pubblico è un bambino, un bambino che ti da tutto il suo amore, specialmente quando s’accorge – e da giù lui ha delle antenne speciali – che tu gli dai tutta la tua bravura, volontà, onestà soprattutto. Io ho lavorato – adesso sto meglio perché non fumo più – ma io ho lavorato in condizioni di salute disastrose. Una sera c’è stato un signore del pubblico che si è alzato e mi ha detto: “Mazzarella, sel fa fadiga parli pure più adagio, non ha importanza sa”. Ragazzi, quelli lì sono atti d’amore incredibili e solo il pubblico è capace di queste cose. Ma non lo devi mai fregare, mai mancare di rispetto, mai pensare: “Stasera ghe poca gent” – Stasera ghe poca gent, bisogna lavurà mei! per punire quelli che non ci sono, perché loro sono qui, è questa la faccenda. E’ che purtroppo noi, la nostra razza, fra poco, fra un venti trent’anni, chiudiamo anche noi. Siamo più giovani del Papa, fortunatamente. Lui non si sente vecchio, di conseguenza nun andè all’asilo duman matina. E ci va benissimo, viva ancora cento anni questo Papa meraviglioso.
Mauri: Ma a te, te lo ha detto Dio che non sei vecchio?
Mazzarella: Non ancora, eppure io gli parlo assieme tutte le sere. Io sono un laico sfrenato, sono un nemico dell’istituzione, però io…
Mauri: Entriamo in religione.
Mazzarella: No no, io non voglio entrare…
Mauri: Ma entro io, per entrare ancora in argomento. Ti ricordi l’inizio del terzo atto? I due vecchi: la Zanoli e la Revel.
Mazzarella: Madonna cos’erano.
Mauri: Un altro fenomeno: la Zanoli. La Zanoli riusciva a fare una voce nel primo atto… Il personaggio era Coo d’oss, e aveva a tracolla una bestia di una macchina con le lampadine, ed era la macchina della scossa elettrica. Ed era una macchina realmente esistita, dove gli uomini andavano a mettere la mano, l’operatrice girava la manovella per vedere quanto resisteva. Il suo grido era: “Scossa elettrica, giovanotti, per provare la forza virile dell’uomo”.
Mazzarella: E di dietro la macchina se vedeva il Togasso e diceva: “Vuè, quand te ghe nient de fa, tratta anca ti sul foc con la to machina, te capì Coo d’oss”.
Mauri: “Oh, perché lu le fort, manstraisc del loffi, come disem nu”.
Mazzarella: Manstraisc del loffi, che è una frase gergale, vuol dire “ammalati di polmoni”: allora la tisi era una malattia di moda, quasi tut i locch ghe l’aveven: beveven e fumaven. Il mal di petto: manstraisc del loffi. Era andato a cercare anche queste cose qua. C’era dentro tutto.
Mauri: Ragazzi, non so se vi siete accorti: ho tentato di finire un discorso… Io perché non sono – lui non ha mai osato chiedermelo – ma mi sarebbe piaciuto così tanto andare nella sua compagnia, ma dopo mi sono trattenuto. Non sono andato mai a chiederglielo. Figurati se io riesco a fare una vita con quello lì, che ti interrompe anche quando reciti. Ma siamo matti? Lassemela finì la storia della Maria Zanoli.
Mazzarella: Sì, ma lasciami dire perché io non potrò mai prenderti nella mia compagnia: perché tu sei talmente bravo e che costi così tanto che non posso pagare uno scritturato come te.
Mauri: La prima cosa è vera, la seconda no, ma fa niente.
Mazzarella: No no, non posso pagare uno scritturato così bravo.
Mauri: Allora. La Maria Zanoli l’anno dopo, alla ripresa, arriva, proviamo e la Maria Zanoli comincia: “Scossa elettrica, giovanotti…”  “No Maria, è più bassa” “lo so Giorgio, lo so” “E allora” “Scossa elettrica, giovanotti…” Insomma, l’ha tormentata e alla fine la povera Maria, con in mano la macchina, ‘l g’ha dit: “Insomma Giorgio, lascia un po’ di tempo: devo ritrovare il maschio che s’è perso in me”. C’era questa apertura nel terzo atto dove la Zanoli faceva un altro personaggio di una beghina agli asili, ai vecchiuni, dove davano da dormire alla povera gente, gli Asili Notturni, là su una panchina con un’altra vecchia, e diseven il rusari; e incominciava: “Ave Maria gratia plena… E la Gervasona?” “E’ una schifusa!” “Ave Maria, gratia plena…”. E cominciavano a zabettare tra di loro e intercalando con questa Ave Maria del rusari. Era una cosa… con l’apertura del sipario. Era magico quell’inizio.
Mazzarella: Poi entrava la … con la erre…
Mauri: La direttrice.
Mazzarella: Perché alle sei dovevano uscire.
Mauri: E poi ha fatto la…
Mazzarella: La Bigetta.
Mauri: No. Quel personaggio lì l’ha fatto la… Dai, che l’hai avuta per tanti anni. La… la… la… Una donna, ai tempi giovane, che poi ha avuto un bambino… Non si ricorda più niente.
Mazzarella: Ho recitato trecentosessanta commedie.
Mauri: Ma dai, l’hai avuta per anni al Gerolamo.
Mazzarella: Ma ‘se vol dir. Al Gerolamo ho fatto centotrenta commedie. Me ricordi pu mi. Mi ricordo lei perché era affascinante. Sai che ha lavorato con Petrolini lei, la Rainer?
Mauri: Non la Rainer. Dici delle cose che non stanno né in cielo né in terra. Cosa c’entra la Rainer?
Mazzarella: Ma allora non parli della Rainer?
Mauri: No. Quella che faceva il personaggio della direttrice, dopo l’ha fatta quella attrice brava, molto carina ti dirò, che ha fatto un sacco di radio a quei tempi.
Mazzarella: Ah, ma li ha fatti con me anche adesso, aspetta. La Leda Celani? No no.
Mauri: Leda Celani, Leda Celani.
Mazzarella: La Leda Celani? La Leda ne ha tre, si vede che ha preso gusto a fare il primo, di figli. Ha lavorato con me l’altro giorno, in Svizzera. No gioia, è bravissima ancora. La Raggio stupenda, la Leda.
Mauri: Penso che voi tutti abbiate visto El nost Milan. Ma immaginate un attimo – e lì non c’era niente da capire, c’era solo da ascoltare e vedere queste due figure, nella nebbia e nel buio, con gli ultimi lumini della fiera che si spegnevano, e vedere l’incontro fra il Togasso e il Dundina. Ti ricordi che finale?
Mazzarella: Madonna, no dit nient.
Mauri: C’era addirittura un duello politico…
Mazzarella: A colpi di sigaretta.
Mauri: No, prima a colpo di fischio.
Mazzarella: Sì, prima sì. Ma finiva con la sigaretta.
Mauri: Perché uno cominciava con
Mazzarella: “Ti te me rughet con quel siful lì, eh”
Mauri: Silenzio e queste due sigarette che si accendevano nel buio. Cos’è che fischiettava l’altro?
Mazzarella: La marcia reale.
Mauri: No, prima era la marcia reale.
Mazzarella: Faceva l’”Avanti popolo”?
Mauri: No no, non era quel periodo.
Mazzarella: Non era così allora. Erano due volte.
Mauri: Aspetta, l’Inno di Garibaldi.
Mazzarella: E’ vero, è vero.
Mauri: Qual era?
Mazzarella: In principio…
Voce dalla sala: “Si scoprono le tombe”.
Mazzarella: “Si scoprono le tombe”. La seconda volta “Si scoprono le tombe”. Ma c’è il motivo: lui ha scoperto che quella là mi dava la dritta sul suo conto. “Ti rughe con quel siful”, cambiava  ghe faceva la Marcia reale. Questo non sa più cosa dire. Ancora. Quattro colpi di sigaretta. Poi butta  a terra la sigaretta. Intanto che spegneva andava via e diceva: “Cià cià andem se non una quai volta ghe porti via fa fa fac vedè quant in i ur”. Si chiudeva il sipario. Lui col mantello. Si chiudeva il sipario. Magico.
Mauri: Era una cosa da brivido.
Mazzarella: Cinema, sembrava cinema.
Mauri: Senza parlare poi dell’accoltellamento del Togasso.
Mazzarella: Tra lui e il Rinaldi.
Mauri: Tra Rinaldi e Carraro. Dove c’era questo trucco cinematografico: sembrava che a soccombere fosse il vecchio invece, mentre il vecchio si alzava tutto tremante, spaventato perché aveva ucciso il Togasso, il Togasso che si piegava in due sul tavolo. E poi c’era la corsa attaccandosi alla ringhiera.
Mazzarella: Pensate che Rinaldi aveva un occhio solo ed era malato anche quello. Pensate che rischiava moltissimo a prendere un colpo di perdere la vista. E allora io l’aspettavo all’uscita della sua corsa per brancar. Guarda che era così, era un macigno d’uomo. E lu ghe diseva agli alter che eran prima della corsa: “L’è là il Massarella, l’è là il Massarella?” Perché dice: magari s’è dimenticato. E quando lui se n’è andato dal teatro, che è andato a Nervi dove aveva una casa, m’ha scritto una lettera che mi ha fatto piangere, perché mi diceva: “E mi ricordo ancora di Parigi, quando io guardavo dall’altro lato della quinta a vedere se lei era là. E lei, come un figlio premuroso, era là ad aspettarmi. Le voglio bene. Emilio Rinaldi”.
Mauri: Era, fra queste tante bontà, era anche un mascalzone, perché proprio a Parigi ha mandato il Feldman, il povero Feldman, a cercare il mare.
Mazzarella: E la colpa è stata sua che glielo ha rivelato. Adesso vi spiego. El me dis: “Piero” Gu dit: “Rumpum pu i ball. Te se semper insema a mi. Nanca se fusset la mia morosa” “E ma mi su no il frances: mi mangi tus cos no inscì“ “Vabbè, ordino io: soupe d’onion” Ed era zuppa di cipolle. “Allora sei anche una carogna”. El di dopu gu dit: “E stam no sempre indrè che mi gu na sbarbada, per piacre” Dis: “Duve a l’è ca vo?” “Sei a Parigi: vai al porto, vai al mare, che è bellissimo” E lu tut el di a caminare. Verso sera l’incontra il Mauri che ‘l ghe dis: “Ma duve a  l’è che te ve?” “Ma è tuta la matina che cerchi el mar” E lu, sensa nanca aspettà, g’ha dit: “Te l’ha detto Mazzarella?”
Mauri: Era l’unico, in compagnia, che poteva fare uno scherzo del genere. La sua bontà, aspettava Rinaldi. Sì, aspettava Rinaldi.
Mazzarella: Che meraviglia. Poi lui ha lavorato anche dopo con me al Gerolamo, e mi ricordo che sulla scorta di questi scherzi, mi diceva: “Fam no di trucc, per piacere”. Allora nei Brandinei c’era un punto in cui lui faceva un notaio e aveva tutti i fogli scritti, perché doveva leggere sto testamento, e li aveva numerati nella cartelletta. E mi, la sera prima che l’andasse in scena, gli aveva mess a post lu, li cuntrullava pu, ghe cambaivi tuti: vun, set, nov, vundes, tri. E lui guardava fra le quinte…
Mauri: La sua infinita bontà, hai capito… C’era un altro personaggio che qui vorrei ricordare, ed era – oramai l’è al cimiteri; a guardà la locandina, hin mort tut – il povero Fusari, che era il cuciniere delle Cucine Economiche. Strehler ghe diseva: “Tu non ti preoccupare delle battute: ti te de sigutà a bruntulà”. Ma star lì a sentire quello che diceva… parlava con le padelle, con le posate, con tuc. Non lo vedeva nessuno, perché era dentro il gabbiotto: di tanto in tanto veniva fuori con la testa da uno sportello perché è da lì che veniva fuori la pacciatoria. C’era – e questa era un’invenzione proprio di Rinaldi – della monetina. Andava, prima dell’incontro col Togasso che poi uccide, andava a trovare forza andando a bere qualche bicchiere e si sentiva: “Cià , un biccier de lucinina” grappa, si chiamava lucinina “e adess un sottovoce” ed era sempre la grappa.
Mazzarella: Sottovoce perché era proibito bere grappa prima di un dato orario, si chiedeva sottovoce.
Mauri: C’era anche un terzo modo per chiamalo. Ma ogni qual volta che andava a comperare questo bicchierino di grappa metteva, c’era un pezzo di marmo, questo centesimo o due, quel che l’è, il sesin, tac si sentiva.
Mazzarella: Sul marmo.
Mauri: Questo a proposito del discorso che faceva, del rumore che lui ha trovato nel versare…, era pieno: l’inizio del secondo atto era un concerto di bicchieri e posate.
Mazzarella: E’ verissimo.
Mauri: Ma veramente un concerto. Beh, e lui aveva trovato questa tac si sentiva, in questo silenzio pretagedia. Poi altra ordinazione, poi la terza, fin quando trova il coraggio di chiedere: “Te vist el Togasso?” “Sì, l’è là con di amis” E lì avviene l’incontro e si scannano. Il Fusari una sera, mette fuori una mano e, approfittando della quasi cecità del Rinaldi, non si sente più il clic, perché la moneta sulla mano del Fusari non si sentiva più. Era di una – chissà se cattiveria o se era perché tutti gli attori sono invidiosi. Anni dopo, perché ha lavorato parecchio Fusari perché era un bravissimo attore, non per le parti grosse, ma era – a parte il fatto la sua figura era straordinaria, veramente caratteristica – nel Goldoni e le Sedici commedie nuove di Ferrari, che è stato messo qualche anno dopo in scena, c’era il Tarascio, che ha fatto nella prima edizione quello che facevi tu.
Mazzarella: Il Dundina.
Mauri: E il gasista anche.
Mazzarella: Credo, perché sono due parti abbinate.
Mauri: Tarascio diceva, faceva a me da capocomico: “Candele candele” e lui faceva il suggeritore, questo vecchio suggeritore con la candela “Accendi, accendi le candele” e dopo un po’ se vultava e diceva: “Poche eh?”. Una sera il Fusari… Tarascio: “Accendi le candele”. Sai un attimo prima – il Fusari: “Poche?”. Bisogna conoscere anche il personaggio Tarascio, meraviglioso attore: l’avrebbe ucciso, ma veramente.
Mazzarella: Sono le piccole malignità - che lui l’avrà fatto per giocare - delle antipatie. Io ho lavorato con un’attrice, di cui non posso dire il nome, alla quale forse stavo sulle palle, non so per quale ragione, fatto sta che non mi poteva vedere. Allora, lei aveva una tirata alla fine d’un atto, dove automaticamente prendeva l’applauso, sempre, tutte le sere, fino a quando io ho deciso che non l’avrebbe preso più. Perché io dovevo ascoltare quello che diceva lei così, e lì veniva l’applauso. Io un attimo prima che lei finisse l’ultima gamba della “a”, un attimo prima facevo… L’applauso ‘l gh’era pu, era un tempo in più.
Mauri: S’imparano tutte. E’ chiaro che il mio grande maestro è stato Strehler, ma io ne ho avuto un secondo, ed è stato Checco Rissone. Checco Rissone proprio ne El nost Milan faceva il Burtulin, parlava in bergamasco, quello della Giostra delle barchette, come dopo aveva sostituito De Toma. C’era un attore bravissimo che era… pochi attori milanesi veri ha trovato Strehler nella prima edizione, e quindi s’è arrangiato anche con gli attori che aveva in compagnia, ossia Tarascio e Matteuzzi – Matteuzzi era bolognese, tant’è vero si prendeva sempre in giro perché non riusciva a dire… la battuta era: “Duman matina meti fora” perché aveva portato via il Turdulun e aveva la baracca del gnam gnam… e “duman matina meti fora” e qui la presa in giro – però era talmente bravo che all’uscita prendeva l’applauso. E allora Checco mi dice: “Scommetti con Matteuzzi?”  dico: “Che cosa scommetti?” ciappavo duemila franchi al dì, mancava de scummet e perd. Dice: “No, vai tranquillo, vai tranquillo, caso mai te li do io. Scommetti che stasera non prendi l’applauso?” Vu là e dis: “Scommetti che stasera non prendi l’applauso? Stasera non prendi l’applauso”. “Va bene, un caffè” “No, io bevo un bicchiere di vino” perché alura il cafè bevevi minga, bevevi il biccier de vin.
Mazzarella: Invece adesso hai continuato.
Mauri: Non prendeva l’applauso. E io bevevo il bicchiere di vino. E non m’ero mai accorto perché non ha fatto le cose sue. Al momento opportuno lui chiudeva la fiera, la lampada che era su in alto con una catena, scendeva: bastava questa lampada che al momento opportuno scendesse, l’applauso non scattava più. E poi mi diceva naturalmente la sera dopo: “Stasera di che lo prende, scommetti”. L’altro, oramai disperato, scommetteva e perdeva perché Rissone non faceva cadere la lampada al momento opportuno. Queste cose qui si imparano da questi mostri. Io ero al primo anno.
Mazzarella: Cosa succede, quelle spiegazioni sono tutte giuste, son tutte… però se noi adesso le vogliamo vagliare, vuol dire che in ognuno di noi, di noi attori, c’è un po’ la voglia di benedirci e ucciderci in alternanza. C’è qualcosa di magico e di diabolico nello stesso tempo.
Mauri: Insomma, il successo degli altri ci da fastidio, diciamo la verità.
Mazzarella: Ma poi io adesso… a prescindere dal successo. Voi avete mai pensato che noi siamo quelli che recitano la stessa sera che muore la loro madre? La mia mamma le abbiam fatto la camera mortuaria su in palcoscenico, perché aveva passato la vita in teatro. Alle cinque del pomeriggio, quando è finito il funerale, hanno sbaraccato il palcoscenico, noi abbiamo recitato la sera stessa. Perché a noi sembra che la cosa più importante sia quella di farvi capire che noi continuiamo a fare quello che piaceva a te, che piace anche a noi. Mia moglie è morta alle sette di mattina in un incidente di macchina, io sono andato a Bologna a riconoscere la salma, son tornato a Milano, sun andà a far spettacul. Ma non è incoscienza, siamo fatti così, cioè: noi non siamo come gli altri, siamo magari peggiori, ma non come. Non siamo come gli attaccapanni della Standa, siamo diversi. I nostri amici preti, che avevano capito ste cose…
Mauri: Via dai cimiteri.
Mazzarella: Via, fuori. In terra sconsacrata, fuori porta in terra sconsacrata erano sepolti i commedianti. Perché loro mica scemi, hanno capito tutto, eh. Noi si precorreva i tempi. Insomma, l’Illuminismo è arrivato dopo.
Mauri: Scusa, scusa, siccome dobbiamo anche lasciare liberi, se qualcuno volesse fare qualche domanda, qua e là, possiamo rispondere e poi accomiatarci, si dice così?
Domanda: Ci sono dei giovani attori che stanno… Voi vivrete per trent’anni, ce l’avete garantito, quindi noi ci contiamo e godremo della vostra
Mazzarella: Grazie, le lascio qualcosa da bere pagato.
Domanda: Non bevo. State preparando dei giovani attori che possano… per esempio, El nost Milan: i miei studenti, i nostri studenti, potranno vederlo o ne sentiranno soltanto parlare?
Mazzarella: No, no, potranno vederlo benissimo.
Domanda: Lui dice “el vedem pu, el vedem pu”.
Mauri: Ma quel lì l’è semper sta un pessimista…
Pubblico: La realtà le sta chi: adesso ci sono degli attori bravi, quasi tutti bravi perché imparen… fanno il mimo, fan chi, fan là. Però mi è cinquant’ann – ti me cunusci da semper – l’è cinquant’ann che vo  a teater, i mostri i u vist pu. Adess gh’è una bella media di atur ch’è bun di fa tanti rob ma insomma…
Mazzarella: Io sono molto… mi perdoni, io adesso vado via, vi faccio fare le domande che volete. Io sono molto distante da questa faccenda che chi è bun de far tanti rob, perché l’attore ad esempio non va confuso con lo showman, capito. L’attore ha dei doveri, prima di tutto. I personaggi che un attore fa sono tanti, e l’attore può considerarsi tale quando arriva a fare il San Francesco d’Assisi il venerdì e Hitler alla domenica, per dire quanti personaggi diversi si possono fare. I personaggi nascono dalla penna dell’autore. Dobbiamo stare molto attenti agli attori che ogni personaggio lo fanno diventare se stessi: non sono attori, eh?
Mauri: Ma non diceva questo.
Domanda: Io voglio sapere se si sta formando una scuola… io gli dicevo, mentre voi parlavate e ci facevate sognare perché ci introducevate a qualche cosa che apparteneva  a voi, io mi chiedevo se i miei studenti, ai quali parlo del teatro, vabbè, ai quali faccio un certo discorso, e che sono qui, vedranno El nost Milan i miei studenti? Lo vedranno? Avranno la possibilità di vederlo? State preparando degli attori che saranno in grado di fare…
Mazzarella: Io non faccio l’insegnate.
Domanda: Dai, non mi prenda in giro.
Mazzarella: Giuro, io no, io non ho mai voluto insegnare, io.
Domanda: A preparare nel senso di tenerli in compagnia…
Mazzarella: Sì, quello sì. Da me possono imparare stando in scena, da me. Ma io non ho mai insegnato niente a nessuno perché non sono in grado di farlo. Io non ho mai scritto una riga.
Domanda: Sì, ma in compagnia ci sono…
Mazzarella: Come no, ma senz’altro, senz’altro, ben vengano.
Domanda: Quindi progettate di fare…
Mauri: No, di fare El nost Milan adesso, non è il caso. C’è una cosa. Io che insegno alla scuola di Strehler, il primo anno io insegno in milanese. Lui dice: “Oh povera mi” però almeno una poesia, due, e qualche scena de El nost Milan  riusciamo a metterla su anche con gente di Messina, per dire, in questi oramai dieci anni. Sono dieci anni che esiste la scuola di Strehler. Questo proprio perché non si sa mai. La storia del dialetto nelle scuole è cominciata molto tempo prima, inventata proprio da Strehler e da Grassi, quando la scuola del Piccolo Teatro era quella che poi è diventata civica, va bene, e lì eravamo io col milanese, poi c’era Pepe col veneto e Sportelli per il napoletano. I tre filoni dialettali più importanti nel teatro, insomma. Perché diceva che era giusto che imparassero anche a recitare anche in un’altra lingua. Oggi si potrebbe dire, fatta l’Europa, è bene che un attore sappia recitare almeno in inglese e in tedesco. Il francese sta diventando una lingua morta.
Mazzarella: Ecco perché io non ho più voglia di fare niente.
Acerboni: C’è anche un’altra risposta che si potrebbe dare…
Mazzarella: Scusate, io vi lascio. Grazie di averci ascoltato. Anche perché, per essere coerenti, io non sono mai arrivato in ritardo, ma non perché io sono molto educato, ma soltanto perché mi darebbe molto fastidio che dicessero: “E già, perché le lu ariva a quell’ora chi”. Io non voglio che lo dicano.
Mauri: Ciao.
Acerboni: Effettivamente dobbiamo chiudere. Ma c’è un’altra risposta, diciamo così, un po’ poetica tra virgolette, che si potrebbe ascoltare dalle parole di Strehler che legge un brano di Testori e che abbiamo scelto per chiudere questo incontro, e che forse potrebbe essere anche, diciamo, una risposta a questa domanda. Quindi, prima però di lasciare la parola  a Strehler, a questo punto, volevo chiudere… Mazzarella è appena uscito… ringrazio Gianfranco Mauri e l’Associazione Amici del Piccolo Teatro che ha organizzato questo incontro. Io credo che Milano esca bene anche da questo incontro. E’ stato piuttosto divertente, direi. Son venute fuori parecchie cose assolutamente inedite, interessanti, che fanno capire che cosa vuol dire fare uno spettacolo visto da dentro, e sono cose molto interessanti. Bene, grazie anche a voi.

Strehler: Città, città questa? città ancora? Il maestro: ”Sì, città, città, culla, tavola, letto, bara,  eppure sempre cara, madre nostra civile, riflesso di madre nostra corporale. Oh ti saluto. Vale, sì, vale esser figli tuoi anche qui ed ora”.



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