In tre righe. In questo articolo, comincio a uscire dalle ristrettezze nelle quali la politica ha utilizzato la cultura per soddisfare gli interessi di categorie di elettori. Nel concetto di cultura rientra certamente la lingua. Azioni, abusi e amnesie della politica.
Nell’articolo precedente,
ho cercato di identificare la ratio secondo la quale i partiti tradizionali e
più in generale il senso comune ha considerato la cultura nel discorso
politico. Ne veniva fuori che la cultura è stata intesa come un sapere
applicato a un saper fare, e che il concetto di cultura può essere più o meno
formalizzato e può essere applicato a ogni genere di sapere applicato a ogni
genere di saper fare: dal sapere basato sull’esperienza poniamo di un
pescatore, a quello basato sul talento poniamo di un attore, a quello basato
sullo studio poniamo dei medici. Tutti possediamo un sapere e lo utilizziamo
nel nostro lavoro.Ma la cultura di ognuno di noi non si identifica con il sapere che applica al suo mestiere. Abbiamo infatti quella che si chiama la cultura personale, la cultura generale e via dicendo. Ma non siamo ancora al punto, perché il punto è capire se c’è qualcosa di culturale che riguarda tutti noi.
La prima cosa che mi viene
in mente è la lingua (ne ho già parlato in un altro articolo). Per quanto male la usiamo, è un fattore comune ed è un
fattore culturale, e un fattore che ha una lunga storia.
Devo dire, al proposito,
che la politica ha sempre avuto per la lingua una certa attenzione: Istituti di
Cultura, contributi (via via più scarsi) a istituzioni specializzate (come
l’Accademia della Crusca) o per la realizzazione di opere, convegni, corsi ecc.
Ma vi è anche
un’attenzione d’altra natura, o, diciamo meglio, una disattenzione, da parte
della politica. Mi riferisco al tema, ben noto, dell’uso della lingua italiana
nelle leggi e negli atti amministrativi e, a cascata, nella prassi
amministrativa e nella comunicazione amministrativa. Si tratta dei cosiddetti
legalese e burocratese. Non intendo descriverli qui, anche perché da almeno due
decenni molti studiosi (italianisti e giuristi) lo hanno fatto con esattezza.
Tuttavia, se mi si passa l’estrema sintesi, è possibile affermare che quei
linguaggi:
- contengono diversi fatti linguistici usciti dall’uso comune da diversi decenni (es. il participio presente con valore verbale, come “documenti comprovanti le spese”);
- impiegano costruzioni sintattiche e lessico più difficili del necessario;
- ottengono troppo spesso di essere incomprensibili o, che è anche peggio, ambigui.
Quel che vorrei dire è che
in ultima istanza questa è una responsabilità della politica. Lo è direttamente
per la produzione legislativa. Lo è indirettamente, sul linguaggio
amministrativo, per via del controllo che la politica esercita sulle
amministrazioni.
È dunque
responsabilità della politica l’esistenza anzi la persistenza di un linguaggio
separato dalla realtà con il quale dare norme alla realtà. I costi di questa
separazione sono altissimi in termini di efficienza della macchina
amministrativa, e persino calcolabili in termini economici. Elenco non
esaustivo dei meccanismi perversi:
- difficoltà di comprensione della legge anche da parte di avvocati e giudici. Effetti: incertezza del diritto, lentezza dei processi, costi e danni per le parti in causa;
- difficoltà di comprensione tra le persone di un ente pubblico, tra uffici, tra enti. Effetti: accumulo di comunicazioni esplicative, comportamenti scorretti, costi inutili per le amministrazioni e danni che ricadono sulla società;
- difficoltà di comprensione tra gli enti pubblici e i cittadini e le imprese. Effetti: lungaggine delle pratiche, incomprensione e dunque comportamenti scorretti, costi e danni per i cittadini e le imprese.
Qualcuno dirà: tutta colpa
del participio presente? E io risponderei: certo che no, povero participio
presente. E allora qualcuno dirà: appunto, basterebbe eliminarlo e scrivere
diversamente. Esattamente, risponderei io. E un altro dirà: e allora perché non
lo fanno?
Già, perché? Non facile, la risposta. Il Ministro della
Funzione pubblica Mario Baccini emise nel 2005 una Direttiva sulla semplificazionedel linguaggio delle amministrazioni, che
comincia così: “Il dialogo con i cittadini richiede un ulteriore passo in
avanti. Nello stile e nella mentalità”.
Mi ha sempre colpito la finezza del collegamento tra lo
stile e la mentalità. Significa che per cambiare lo stile bisogna anche
cambiare la mentalità. Non voglio entrare nella lunga digressione che
richiederebbe svolgere bene il tema, e anzi vorrei rientrare nell’argomento
principale il più in fretta possibile. Per farlo, sintetizzerei così: i
cambiamenti della mentalità organizzativa sono dolorosi, lenti, e possono
essere progettati solo se il vertice di una organizzazione li desidera.
Esistono infiniti casi positivi nelle organizzazioni private. In quelle
pubbliche, invece, i casi positivi sono pochi o meno noti, per quanti tentativi
siano stati fatti (La tela di Penelope.
Primo Rapporto Astrid sulla semplificazione legislativa burocratica, Il Mulino,
2010, il cui titolo la dice lunga).
Dunque, se lo stile è una questione di mentalità e la mentalità è una questione
organizzativa che dipende in ultima istanza dal vertice, ecco perché la
responsabilità di quel linguaggio è della politica.
Dunque, tornando finalmente al tema principale, la lingua,
fattore culturale basilare e unificante degli italiani, non interessa la
politica, interessata piuttosto a mantenere una sua lingua separata. Separata
dai vari linguaggi, scritti e parlati, dei quali i cittadini si servono per
comunicare, per informarsi, per dilettarsi, per riflettere e per discutere.
Nella comunicazione tra i cittadini, la gran novità di questi ultimi due decenni è, a mio modo di vedere, che tutti scrivono, e pubblicano. In altri termini, abbiamo per la prima volta nella storia la possibilità di analizzare la lingua di tutti gli italiani o, per meglio dire, i diversi stili della lingua degli italiani. Senza entrare nel tecnico, mettiamola così:
Nella comunicazione tra i cittadini, la gran novità di questi ultimi due decenni è, a mio modo di vedere, che tutti scrivono, e pubblicano. In altri termini, abbiamo per la prima volta nella storia la possibilità di analizzare la lingua di tutti gli italiani o, per meglio dire, i diversi stili della lingua degli italiani. Senza entrare nel tecnico, mettiamola così:
- il governo della grammatica non è molto diffuso (spesso, è più diffuso tra gli immigrati);
- la pressione del parlato è fortissima, anche su scritture che potrebbero essere più controllate, dal momento che si pongono di fatto come esemplari (es. il linguaggio giornalistico);
- la percezione dell’autorevolezza che acquista il pensiero quando è scritto è fortissima, soprattutto in coloro che ottengono la pubblicazione per via digitale, cioè al di fuori dei tradizionali meccanismi di controllo qualità.
A voler trarre qualche considerazione sociologica, si
potrebbe dire che molti italiani riconoscono alla scrittura il valore (storico)
di dare autorevolezza alle idee, e accedono alla scrittura senza preoccuparsi
troppo di non saperla gestire bene.
Tutto ciò ha un rilievo politico notevole. Da un lato,
infatti, dimostra l’incapacità della scuola di garantire un insegnamento
linguistico nemmeno basilare (grammatica), quando invece sarebbe necessario che
almeno i diplomati fossero consapevoli dell’adeguatezza di quale stile per
quale canale (un contro è un sms, un conto un commmento in un forum, un conto è
un articolo ecc.). Dall’altro, rappresenta l’insofferenza di molti italiani
verso il classismo culturale, verso la sanzione che la cultura tradizionale ha
emanato nei confronti di chi è rimasto al di fuori dei suoi meccanismi: non
sai, non conti, non scrivi, non esisti.
In sintesi, la lingua rappresenta oggi una società
ambiziosa, cioè desiderosa di emanciparsi da limiti storici, e nello stesso
tempo incapace di sostenere adeguatamente la sua ambizione; una società dalle
grandi tradizioni culturali, e nello stesso incapace di trasmetterle, cioè di
renderle strumento dell’ambizione a crescere e non ostacolo alla crescita; una
società non democratica, nella quale la lingua del vertice politico e
amministrativo e la lingua dei cittadini sono lontanissime da un minimo
accettabile di interoperabilità.
È del tutto evidente che la politica, oltre a servirsi di un
lingua separata, non abbia avuto finora alcun interesse a occuparsi di queste
cose, sempre ammesso che le abbia viste. Ciò che la politica ha fatto riguarda
solo indirettamente la lingua:
- disegni di legge per limitare il diritto di pubblicazione web;
- riduzione continua delle risorse destinate all’istruzione;
- controllo scellerato dell’informazione tradizionale (televisione e stampa).
Tuttavia, il discorso che ho condotto non nega che la
lingua sia stata, sia e sia destinata a restare un fattore unificante, il
sostrato comune degli scambi tra i membri della comunità e un indicatore
altrettanto comune dello stato di salute della comunità. E che questo fattore,
di per sé culturale, abbia a che fare profondamente con ciò che i singoli
membri della comunità sono, e dunque, in definitiva, con quello che la comunità
è.
Per questa via, cominciamo a uscire dalle ristrettezze
nelle quali la politica ha chiuso il concetto di cultura, cioè, lo ricordo,
definendola come un sapere applicato a un saper fare. Siamo sulla strada della
cultura come valore identitario. Ma, per il momento, basta così: riprenderò il
discorso in un altro articolo.
Nel frattempo, intermezzo comico (dal minuto 52,56 al min. 59,35, e notare la censura RAI 1977 al min. 57,37).
Articoli collegati
* La lingua, ciò che ci unisce e discrimina
* Per la politica tradizionale, la cultura è un sapere collegato al saper fare
Nel frattempo, intermezzo comico (dal minuto 52,56 al min. 59,35, e notare la censura RAI 1977 al min. 57,37).
Articoli collegati
* La lingua, ciò che ci unisce e discrimina
* Per la politica tradizionale, la cultura è un sapere collegato al saper fare
Il tema purttroppo resta attuale e quindi necessita di essere riproposto
RispondiEliminahttp://www.leformedellapolitica.it/67-norme-e-linguaggi-che-separano.html
Antonio