A questa serata parteciparono Piero Mazzarella e Gianfranco Mauri, che avevano a suo tempo recitato nel Nost Milan. A me fu chiesto di gestire l'incontro. Nei giorni precedenti, incontrai Mazzarella (ma non Mauri) per preparare la serata e stabilimmo una specie di scaletta. La quale non fu rispettata in nessun punto, perché Mazzarella, fin dal suo primo intervento, diede alla serata un taglio esilarante che la tramutò in uno spettacolo vero e proprio, un 'pezzo di teatro', un'improvvisazione continua tra lui e Mauri, titolari irripetibili di un'arte antica. Questo è il valore della trascrizione, così come mi fu mandata da Alberto Mario Allemandi (presidente dell'Associazione).
AlLemandi: Buonasera. Di solito
prometto di non parlare molto, invece questa volta qualche cosa in più la dico.
Avete visto questa scelta di fotografie in cui c’è la Valentina Cortese ma c’è
anche la Valentina Fortunato che è stata la prima grande interprete e non c’è
niente della Mariangela Melato. Ci sono problemi di ricerca di materiale, voi
sapete che è molto difficile, quando riusciamo cerchiamo di prenderlo e
utilizzarlo. Questa volta non abbiamo potuto prendere altro, forse in futuro
riusciremo ad avere qualche cosa dalla RAI che dovrebbe avere qualche cosa.
Prima di tutto voglio ringraziare ancora una volta l’equipe tecnica del Piccolo
che ci aiuta a manifestare queste nostre piccole manifestazioni e grazie anche
a voi che siete venuti nonostante la malattia del secolo, pare, del nuovo
secolo. Auguri per il nuovo anno. Questa manifestazione, come sapete, doveva
essere dedicata a Gino Negri e alla sua musica, per motivi tecnici Filippo
Crivelli non ha potuto perché è impegnato ancora a Roma per cui siamo passati
su questa manifestazione. El nost Milan: ci pare molto giusto farlo in questo
momento perché dopo il successo del Festival d’Europa sembra giusto riprendere
questo concetto dei Nost Milan, questa valorizzazione di Milano e del suo
teatro che è stata fatto qui al Piccolo Teatro. Adesso ve ne parlerà Acerboni
che è specialista di Bertolazzi e di tutto il teatro milanese perché è un
insegnante alla Statale di Milano e si occupa di queste cose. Purtroppo
Valentina Cortese non viene perché non si sente bene, aveva dei problemi e noi
la ringraziamo molto ma faremo qualche cosa con lei più a lungo. Lamberto
Pugelli sta provando le luci dell’Adriana Lecouvreur alla Scala ma ha giurato
che se riesce a venire cinque minuti arriva: non so cosa succederà. Comunque
adesso sono lieto di presentarvi… dovrebbe entrare il professor Acerboni, che
se entra lo salutiamo, che presenterà. Poi abbiamo Gianfranco Mauri, che è una
delle colonne del Piccolo Teatro. E poi abbiamo Piero Mazzarella, altra
colonnissima del nostro teatro e in particolare Ringraziamo tutti…
Mazzarella: Ma un tavolo costava caro? Ci sono sei sedie, siamo in due, non c’è
un tavolo.
Mauri: E’ che deve appoggiarsi per addormentarsi.
Mazzarella: Io rischio di addormentarmi soltanto quando parli tu e basta.
Mauri: Te l’ho detto prima. Ronfa sempre.
Mazzarella: Perché, ve lo prestavo
io, io ne ho tanti.
Mauri: Guarda, non ti basta questo qui?
Mazzarella: Ma non è un tavolo!
Mauri: E’ un tavolino.
Mazzarella: Ghe nanca un pu de pansceta. Non c’è niente. Le cose fatte in
economia, ragazzi. Come siamo finiti in basso. E’ lei che deve parlare?
Acerboni: Adesso sì.
Mazzarella: Si sbrighi perché io ho le prove, vengo dalle prove e rivado alle
prove. Scusino eh. Dai, fai un po’ alla svelta. Lui ha niente da fare, va bene,
ma mi lavori stasera, su. E’ stato per fregare a lui il primo applauso, avete
capito? Se no li beccava lui, il suonato qui di Erba. Parli, parli, le diamo il
permesso.
Acerboni: Questo era un inizio all’improvvisazione. Quello che, presentando
questa serata, mi sembra anche singolare e curioso da dire è che comincia il
Duemila, che non è il nuovo secolo, però all’inizio di questo secolo, e insomma
nel Duemila parlare ancora di dialetto milanese è una cosa divertente perché
all’inizio di questo secolo lo si dava per morto. C’è una lettera inedita di
Boito che proprio pochi giorni prima della morte di Bertolazzi, in un tentativo
di dare vita a una nuova compagnia in dialetto milanese, diceva delle cose che
adesso leggo: “Non credo all’avvenire del teatro dialettale. Desidero
ingannarmi ma non ci credo. I dialetti scompaiono (chi intende più il Porta?),
i dialetti vanno fondendosi nella lingua nazionale, perdono le loro
caratteristiche, i tipi stessi, i modelli dei teatri dialettali non si trovano
più, non esistono più macchiette”. Questo lo diceva Boito nel 1916 e sembrava
una specie di de profundis del teatro
ma anche, direi, della lingua milanese. E in un certo senso aveva anche
ragione, forse per quanto riguarda la produzione di commedie, ma non per quanto
riguarda la cultura che una lingua ha dentro di sé. Quello che è cambiato
quando Strehler ha deciso di mettere in scena El nost Milan nel ’55, ma aveva
deciso prima, poi non l’ha fatto subito, era già una delle commedie papabili
per la stagione del ’47, poi ha continuamente rimandato, era cambiata Milano,
soprattutto, erano passate due Guerre Mondiali, l’industrializzazione, che nel
Bertolazzi ne El nost Milan era un fenomeno presente ma iniziale,
l’industrializzazione era avvenuta completamente, e così l’immigrazione, ne El
nost Milan ci sono già dei personaggi immigrati, da Pasqualino napoletano a
Luisin brianzolo, poi ci sono dei veneti… Come? Bergamasco… era completamente
avvenuta. Quindi anche l’immigrazione è un fenomeno che ha trasformato la
città. E la città stessa era cambiata. El nost Milan è una commedia che si
svolge in quattro ambienti reali della Milano del tempo: di questi quattro già
un anno dopo, due anni dopo la rappresentazione, la prima rappresentazione è
del 1893, uno non esisteva più, il più caratteristico, il Tivoli, quello del
primo atto. Al tempo di Strehler oltre a quello era saltato, era scomparso
anche gli asili notturni, che si trovavano in via Pasquale Sottocorna, era una
costruzione del 1884 finanziata da Edoardo Sonzogno, l’editore, che aveva fatto
due reparti, uno femminile e uno maschile e li aveva chiamati col nome dei
genitori, Teresa e Lorenzo, e c’era anche la sala di lettura negli asili
notturni, ma non c’era più. Quelli che resistevano, all’epoca e resistono
ancora adesso, sono questo, il palazzo del Broletto, e le cucine economiche che
si trovavano in via Melchiorre Gioia, c’è una palazzina.
Mazzarella: Si trovano lì ancora, non le hanno spostate.
Mauri: Sono lì.
Acerboni: La cosa singolare è che Strehler di due atti esistenti, delle due
ambientazioni esistenti, le cancella perché riunisce i due atti corrispondenti,
il secondo e il terzo atto, li riunisce in uno solo e lascia in sostanza
intatti quegli ambienti che erano scomparsi. Ora, è anche vero che poi dopo la
rappresentazione del ’55 intorno a Bertolazzi, intorno al dialetto milanese e
intorno al teatro milanese rinasce un interesse che prima era scomparso. Bertolazzi,
che è morto nel 1916, era già stato superato: El nost Milan è del ’93 ed è
probabilmente…
Mauri: Dopo la lettera del Boito.
Mazzarella: E’ stato lui che l’ha ammazato.
Mauri: Dopo la lettera del Boito è morto.
Acerboni: Dopo la lettera del Boito è morto. Era un teatro che non si era
riuscito a sviluppare oltre, il teatro borghese in dialetto non aveva molte
gambe, El nost Milan è un po’ la punta più interessante di una tradizione
milanese che era partita nel 1870 con Cletto Arrighi che aveva dato vita ad un
teatro che si chiamava proprio Teatro Milanese, prevalentemente comico, e che
aveva dato poi quel grande attore che era Edoardo Ferravilla, poi Sbodio, poi
Carnaghi, e Bertolazzi è l’ultimo autore che si inserisce in questo tipo… in
una tradizione che però, con la fine di quel secolo, si affievolisce.
Mazzarella: Sì, però bisognerebbe dire anche, parlare di Cletto Arrighi, di
Giraud, non si può lasciarli fuori. Sbodio, Ferravilla, Carnaghi, poi c’è
Giraud: non costa molto dire due nomi in più, eh. Scusatemi, sono un
perfezionista.
Acerboni: Non c’è problema. Cletto Arrighi, o Carlo Righetti, era un romanziere
che a un certo momento ha compreso che a Milano c’era l’esigenza, per una città
che si stava trasformando, di un teatro specchio, e aveva indovinato che
rivalutare, recuperare e aggiornare soprattutto la tradizione del teatro
dialettale poteva essere una chiave utile. L’aveva fatto scrivendo in cinque o
sei anni una trentina di commedie, molto divertenti, anche un po’ ripetitive, e
aveva lanciato una serie di attori che erano praticamente debuttanti, fra i
quali appunto Ferravilla, poi più tardi Edoardo Giraud e Gaetano Sbodio i
quali, dopo qualche anno prendono il sopravvento nella gestione di questo
teatro e l’Arrighi viene estromesso e proseguono un’attività trentennale. Il
Teatro Milanese che si trovava in Corso Vittorio Emanuele viene demolito nel
1903. E fino ad allora le scene di quel teatro vengono calcate da Ferravilla e
compagnia che ottengono un successo straordinario perché, in un’epoca in cui il
teatro italiano era fondato sulle compagnie di giro, che rappresentavano sette,
otto, dieci commedie all’anno, Ferravilla ne faceva trenta stando otto – nove
mesi nello stesso teatro. Ciò che differenzia Bertolazzi e Sbodio Carnaghi, con
i quali poi Bertolazzi stabilisce una collaborazione continua, è il fatto che,
mentre Ferravilla si occupa prevalentemente di rappresentare un repertorio
prevalentemente comico che gli permetteva di improvvisare, di realizzare le
scene a soggetto per le quali era particolarmente tagliato, Bertolazzi, con
Sbodio e Carnaghi, decidono di dedicarsi a una rappresentazione della realtà di
Milano, quindi, con El nost Milan che è appunto il capolavoro di questo genere,
cercare anche di cogliere quelli che sono i problemi di una società, di una
città che era indubbiamente in un periodo di grande trasformazione e anche di
grandi problemi: sullo sfondo dell’inizio dell’industrializzazione ci sono i
problemi di emarginazione, di disoccupazione, i primi problemi diciamo moderni
in una città che in Italia era la prima a vivere e anche a promuovere lo sviluppo della società in
questa direzione. Però, da un punto di vista drammaturgico e teatrale, questo
tentativo di fare un teatro consapevole, moderno e critico della società, di
fare questo teatro in dialetto, è un tentativo che ha appunto poche gambe. Dopo
pochi anni Bertolazzi non riesce più a trovare degli spunti per andare avanti
su questa strada: il dialetto continua a usarlo ma in ambientazioni più
borghesi, dove il dramma non è un dramma sociale ma un dramma intimo, diciamo –
forse non è molto corretto dirlo – ma sono un po’ delle commedie scritte alla
Praga, alla Giacosa scritte in dialetto. E poi, con il nuovo secolo, Bertolazzi
rinuncia al dialetto e scrive in lingua, però – vendetta della sorte – per
veder rappresentate le sue commedie, delle quali L’egoista è forse la più famosa, le deve tradurre perché ormai si è
fatto una certa fama come autore di successo in dialetto e le sue commedie in
lingua gli attori le vogliono tradotte, e quindi L’egoista viene tradotto in veneto per Ferruccio Benini e altre
commedie, che sono scritte originariamente in italiano, devono essere tradotte
per essere rappresentate. Tornando a Strehler, Strehler nel momento in cui
sceglie di rappresentare El nost Milan si trova di fronte a un rischio e a una
sfida. Il rischio è quello di fare del bozzettismo perché El nost Milan è
effettivamente una commedia impostata su una rappresentazione realistica degli
ambienti: funzionano da sfondo per un dramma, ma il rischio del bozzettismo
c’è, del realismo c’è. Oltretutto un realismo in ritardo perché appunto, come
dicevo prima, quella Milano, la Milano rappresentata da Bertolazzi, non c’era
quasi più e comunque era magari anche difficilmente riconoscibile per gli
stessi abitanti di Milano. E poi c’era un secondo rischio: il rischio del
dialetto, perché nel 1955 il dialetto era ancora parlato però le cronache
raccontano che già una buona parte del pubblico faceva fatica a capire certe battute. La sfida era quella
invece quella di recuperare un testo che aveva delle grandi potenzialità
teatrali e aveva appunto, tolti i riferimenti troppo realistici o per le meno
non concentrandosi troppo sul dato realistico, aveva delle grandi capacità di
rappresentazione comunque di una realtà moderna, cioè era un testo che poteva
assolutamente essere attualizzato, perché rappresentava dei problemi che anche
nella Milano di allora, cioè del ’55, esistevano: il gioco del Lotto, la
speranza ultima dei poveri, la miseria, la disoccupazione – non dimentichiamoci
che Milano nel ’55 usciva, forse proprio allora…
Mazzarella: Non è cambiato niente in parole povere, no? Quando c’è miseria il
gioco è l’ultima spiaggia, dico, anche oggi, no? Allora, non succede niente.
Acerboni: No no, infatti. Tant’è vero che appunto Strehler la ritiene attuale
anche nel ’79 questa commedia, si tira addosso parecchie critiche però la rifà
anche nel ’79, in un’epoca in cui le cose erano cambiate anche parecchio
rispetto al ’55. E a questo proposito, cioè sulla distanza che separa la prima
dall’ultima rappresentazione, perché la prima è del ’55, la seconda è del ’61 e
la terza è del ’79. Nel ’77 c’è un articolo di Testori, di Giovanni Testori sul
Corriere, di cui vorrei leggere alcune parti. E’ un articolo nel quale Testori,
in qualche modo, rimpiange gli anni Cinquanta e Sessanta di Milano, anni
difficili ma molto produttivi, e dice: “E chi – dite – chi ripeterà più per noi
il miracolo de El nost Milan strehleriano? In che modo risentire un’altra volta,
magari nell’ora in cui la malinconia più ci punge o ci assedia, la voce della
Cortese, vera anima di nebbia vagante tra il Tivoli e le Cucine Economiche?
Risaliva quella voce da tutta l’oscura dignità, da tutte le oscure rogne, gli
oscuri magoni delle nostre madri, donne offese eppure capaci di infinito amore,
Valentina bianca e lunare Valentina. Chi alzerà adesso la mano per scrivere
un’altra volta “No”, se noi che abbiamo vissuto quegli anni ci ritiriamo o ci
rifiutiamo di dare un aiuto a che quel “No”, con altra forza e altri colori,
può ancora graffiare sui muri della cosificazione in cui Milano sta per essere
incarcerata mentre, gemendo, dice che non vuole?”. Queste parole possono essere
lette, diciamo come una specie di preludio alla terza edizione de El nost
Milan, un’edizione che viene anche molto criticata proprio perché, da un certo
punto di vista, secondo alcuni critici, di artistico, di nuovo, non c’era nulla
o c’era poco. Ma per ripercorrere forse la storia di questo spettacolo, uno
spettacolo che ha segnato certamente una tappa importante nel percorso
artistico di Strehler, uno spettacolo a cui è seguito un recupero di alcune
parti della tradizione drammaturgica in dialetto milanese, perché poi al
Piccolo di Bertolazzi sono state fatte anche L’egoista, La Lulù era stata fatta
prima, L’egoista, e poi in dialetto L’eredità del Felis di Illica, di Albini e
Bettini La guera e I vincitori, con dei salti anche all’indietro fino al Maggi,
dei Consigli di Meneghino e De Lemene, La sposa Francesca (uno spettacolo di
non molti anni fa)…
Mazzarella: I consigli di Meneghino no, Il barone di Birbanza.
Acerboni: Il barone di Birbanza. La sposa Francesca, uno spettacolo di Lamberto
Puggelli di qualche anno fa. Ma appunto per ripercorrere queste tappe, io darei
immediatamente la parola a Gianfranco Mauri che, se possibile…
Mauri: Sì sì, guardavo lui perché subito… E’ capacissimo.
Mazzarella: No no, io correggerò solo le inesattezze.
Acerboni: Sì perché ha debuttato al Piccolo Teatro proprio con El nost Milan e
quindi, siccome prima del debutto, poco prima del debutto ci sarà stato un
incontro con Strehler, magari era il caso anche di partire da lì, dall’incontro
con Strehler.
Mauri: Sì, io debutto nel ’55 con El nost Milan e lui arriva anni dopo
naturalmente.
Mazzarella: Sono molto più giovane.
Mauri: Ma lui aveva debuttato già in altre cose, faceva già il teatro, io
invece facevo l’oratorio, la filodrammatica, le studentesche, quelle cose lì.
Ma il mio primo lavoro da professionista è stato proprio El nost Milan. Niente,
una storiella in fondo: disperato perché avevo fatto delle domande di
presentazione in altri teatri, avevo sempre costantemente ricevuto dei no,
eccetera, passando lì, anzi ero a prendere le sigarette a quel bar lì d’angolo,
vedo sul portone qui del Piccolo Strehler, che io avevo visto una volta in una
conferenza mesi prima, attraverso di corsa la strada, vado al portone… “Scusi,
lei è il signor Strehler?” non sapevo nemmeno che bisognava dare del dottore,
perché i registi sono tutti dottori “Lei è il signor Strehler?” lui mi guarda e
dice: “Sì perché?” “No, le spiego la mia storia…” “Guarda, va lì, c’è lì la
Maria, da’ il tuo nome che io fra qualche giorno devo fare delle audizioni”. E
così con lui feci questa audizione proprio qui e sapevo che dovevano fare El
nost Milan, che io non conoscevo…
Mazzarella: Figuriamoci:
Mauri: …ma sapevo che bisognava conoscere il dialetto.
Mazzarella: Uno che nasce a Erba cosa volete che capisca. Contadino, le lumache
conosceva.
Mauri: Conoscevo il don Alberto, che era il mio primo regista e autore.
Mazzarella: Un prete conoscevi.
Mauri: Don Alberto non era certo il nobile, era un don, un don prete. E
allora mi preparo andando a vedere alcune poesie in milanese, una poesia
bellissima del Cesare Mainardi, te la ricordi?
Mazzarella: Sì conosco.
Mauri: Dove si parla di un muscunin, della marchesa che lo spiaccica alla
fine dopo aver parlato di poesia, lo schiaccia sotto un piede “col pescin
poetic lo spetascia”. E io mentre dicevo ‘sta roba, che era una cosa buffa,
sentivo ridere e mi preoccupavo “Riden, non c’è più niente da fare, oramai
posso andar via di corsa”.
Mazzarella: La tua faccia faceva ridere. Vuoi che piangano?
Mauri: No, è perché la roba era abbastanza…
Mazzarella: Divertente.
Mauri: “Un magher, tisigusc d’un muscunin dopu stava vint ur in agunia
l’aveva incumincia a sgarbià un sciampin e pü pian pian…”
Mazzarella: La racconta tutta adesso.
Mauri: No, è un pezzettino per dire che era una cosa buffa. Morale, mi dice:
“In lingua non sai niente?” e faccio un pezzo dell’Uomo dal fiore in bocca,
cosa che tutti noi abbiamo portato nelle audizioni…
Mazzarella: E male.
Mauri: E poi mi ha tenuto mezz’ora a chiacchierare sul mio passato, su cosa
avessi fatto, eccetera eccetera.
Mazzarella: Sull’Inter.
Mauri: Vado, corro dalla Maria, metto il numero di telefono, che qui ‘sta
Maria era la centralinista, l’amministratrice, era lei, sopra c’era la Vinchi,
ma adesso si va lì alla nuova sede, saranno in vot cent, na roba del genere; io
non conosco più nessuno.
Mazzarella: Sembra di essere a Cape Canaveral.
Mauri: Niente, vengo preso per El nost Milan. E sempre su questo
palcoscenico, su un grande tavolo, perché eravamo in tanti, non distribuisce,
se non agli attori principali, c’era Valentina Fortunato, c’era Carraro, c’era
la Mara Reveri, c’era Rinaldi: insomma, era un gruppo che faceva veramente
paura dalla bravura.
Mazzarella: Bravi, bravi. Irripetibili.
Mauri: Io mi ricorderò sempre la bravura del Pampurini: era un oste di via
Scaldasole, aveva la trattoria dove andava spessissimo a mangiare Ferravilla,
l’ha conosciuto lì el ga dit: “No, ti te venit a recitar con mi” “Ma va mi avè
da recità” “No, ti te venit a recitar con mi”. L’ha portato, l’ha fatto
recitare ed era… non bisognava fargli imparare nulla a memoria, perché lui ‘l
ghe dava de pesciada alla cupola del suggeritore perché “è un rompiballe quel lì”. Strehler è
riuscito anche a fargli imparare questa parte meravigliosa, devo dire, del
reduce del ’48: era veramente un poema, con delle cose anche…
Mazzarella: …di una semplicità incredibile, ma la sua forza era quella lì: la
forza degli attori di quel tipo lì è che non recitano mai, parlano, perché in
teatro difficile è parlare non recitare, tutti sanno recitare, il primo pirla
che passa recita…
Mauri: Anche il secondo.
Mazzarella: Passa tutta la vita a recitare, è lì il guaio. Parlare siamo in
pochi.
Mauri: No, te minga vist, fa nient, non hai apprezzato.
Mazzarella: No ma ho proprio
sentito l’intonazione, capisci. Tu non sei solo da vedere, sei anche da
sentire.
Mauri: Mentre i personaggi secondari, che in teatro non è…
Mazzarella: Quanto parlano…
Mauri: Io non voglio farti andare alle prove, non hai capito.
Mazzarella: Tra poco escono i lattai.
Mauri: I personaggi secondari nei grandi autori non esistono, l’è minga
vera. Sì, ci sono quelli che parlano di più o quelli che parlano di meno, qui
lo può dire Piero: il successo che io ho avuto ne El nost Milan, contando le
battute sono sette.
Mazzarella: Però ragazzi; ora non scherzo più. Era irripetibile ne El nost Milan,
veramente.
Mauri: Ecco, cancelà.
Mazzarella: No cancelà, perché credo che non si possa fare più di così.
Mauri: Ma Piero, lo sai che ci vogliamo bene e ci prendiamo sempre in giro
proprio per quello.
Mazzarella: Io mi ricordo Parigi, io mi ricordo, perché qui giochiamo in casa,
ma a Parigi noi parlavamo in milanese e
abbiam preso gli stessi effetti che abbiam preso a Milano e gli stessi
applausi. Io al secondo atto son saliti a toccarci per vedere se eravamo veri,
ma porca vacca.
Mauri: A proposito di questo, pensate che il pubblico francese sentiva nel
secondo atto l’odore di minestrone che non esisteva. E’ questa la potenza del
teatro, la magia, incredibile.
Acerboni: Ho trovato una recensione di uno spettacolo… dello spettacolo
fatta a Roma nel ’61, quindi la stessa
edizione che poi è andata a Parigi.
Mazzarella: No, no, no, no. Sbaglio enorme.
Mauri: Lui non c’era.
Mazzarella: Io non c’ero. Io ho fatto El nost Milan con le due Valentine, con la
Fortunato prima e con la Cortese dopo.
Mauri: Dopo c’è stata anche la… la… la…
Mazzarella: L’ultima, quella non mi interessa.
Acerboni: No, io dico a Roma nel ’61… lo spettacolo va a Roma nel ’61 e una
recensione dice così: “I romani hanno
capito che c’era er fattaccio, che ci
scappava er morto, ma per il resto
sono allo scuro della vicenda e sono usciti, cioè dopo il primo atto una parte
del pubblico non ha capito…
Voce dal pubblico: Sono dei maleducati.
Mauri: Ma no, ma non è questo. Non è questo. A Roma il pubblico non è venuto
perché parlavano in milanese.
Mazzarella: E basta.
Mauri: Ma quei pochi che sono venuti a vedere…
Mazzarella: Erano entusiasti.
Mauri: Erano entusiasti. Davano fuori di matto. Ecco, quindi quel critico lì
è un falso. Comunque, a parte…
Mazzarella: Ma la faccenda più grave, ragazzi, adesso, già che ci siamo, io spero
che sia giù questa signora, è che non capiscono niente e non sanno niente. Io
ieri ho letto sul Corriere della Sera, e non parlo di un giornale sconosciuto,
di una giornalista che parlava del Gerolamo con delle inesattezze incredibili.
Io volevo trovarla e dirle: “Signora…”. Dice che il Gerolamo è stato fatto per
i burattini: signora, i burattini non esistevano neanche a quell’epoca lì. L’ha
fatto il Mengoni, l’architetto della Galleria, era un teatro d’opera sotto
Maria Teresa d’Austria, non ne parla neanche. I Colla hanno fatto trent’anni al
Gerolamo e basta, ma lì è passato tutto il mondo. Ci sono i manifesti di quando
si pagava un baiocco, quindi non siamo nel Novecento quando si paga un baiocco.
E allora perché non si prendono la briga di andare a informarsi sul serio come
stanno le cose. Diciamo: i milanesi sanno pochissimo del loro paese e non si
sono mai curati di sapere di più. Per non parlare di cose lontane ma di cose
controllabili: nel ’59 la Fondazione Cini e l’altra, la… la… fanno la storia di
Milano, ventiquattro volumi…
Voce dalla sala: Treccani.
Mazzarella: Treccani …che costavano un capitale. Io l’ho comprata a rate. Hanno
fatto cinquemila storie di Milano – cinquemila ventiquattro volumi: sono
passati cinquant’anni, di più, cinquantasei sono passati, ce ne sono ancora
duemila copie: vuol dire che i milanesi non ne hanno comprate neanche la metà,
sì un po’ più della metà, in cinquant’anni. Allora vuol dire che non sanno
niente. E’ perché i libri si comprano se il colore sta bene con la nostra
biblioteca, mettiamo rosso e verde perché stanno bene col marron noce e basta, poi leggen no, non hanno neanche le pagine
tagliate, questi emeriti coglioni dei milanesi. Sissignori, noi possiamo dire
che i milanesi son dei coglioni, perché noi questa città l’abbiamo amata e
continuiamo a amarla disperatamente, come una madre, un’amante, un’isola, un
rifugio. E quindi vediamo anche i difetti.
Voce dalla sala: E allora tu sai che al Gerolamo non c’erano i burattini…
Mazzarella: Ci son stati sì.
Voce di prima: …c’erano le marionette.
Mazzarella: Sì vabbè, adesso il nome è diverso. Ma per trent’anni soli però, è
stato un passaggio, e basta. Non è nato per i burattini – marionette o altri
spettacoli: è nato come teatro di corte; e c’è una notizia sotto che dice che
“adesso lo rifanno…” e dice altre palle, perché Ceschina è morto e l’erede
universale è la moglie che è una cinese, alla quale hanno fatto causa tutti gli
eredi ma l’hanno preso in saccoccia. E la cinese, che è erede universale, l’ha
ciappà tuti i miliard e si è purtà via. Non rifanno niente, sono palle che vi
raccontano tranquillamente, perché noi le beviamo tutte ste palle. Ma parliamo
de El nost Milan…
Mauri: Vogliamo tornare appunto…
Mazzarella: Sì, è meglio, perché io mi incazzo sennò.
Mauri: Primo te ciappet rabbia, secondo l’allunghi e arrivi tardi alle
prove, cosa che a te non è mai successo… E niente, questo per dire, per tirarla
un po’ in breve, che mi sente parlare…. dico: “Scusi” (avevo imparà a ciamal
duttur) “Scusi dottore, lì c’è scritto dialetto bosino” che sappiamo è il
dialetto di Varese, ma non è tanto lontano dal mio, che è brianzolo”. “Prova a
leggerlo, prova a leggerlo”. Infatti ho letto sta roba, in brianzolo, e subito
mi ha affibbiato la parte del Luisin. Ragazzi, il Luisin mi ha portato anche
bene, nel senso che mi ha portato buono, fortuna, perché da allora io son
sempre stato con Strehler per circa quarantadue anni, facendo altre cose, se
pensate che proprio quell’anno, anno teatrale 55/56, Grassi, dopo il successo
del Nost Milan, mi dice – perché allora non si firmavano i contratti di sei
mesi, contratto… finivi il lavoro, nel caso te lo rinnovavano,– mi fa rinnovare
il contratto per L’opera da tre soldi,
mi fa rinnovare il contratto per Dal tuo
al mio di Verga, e poi mi chiama e dice: “Guardi che Strehler ha deciso di
farle fare il Brighella nell’Arlecchino”. Me l’ha dato come fosse un premio
meraviglioso: io Arlecchino non l’avevo mai visto, non sapevo neanche di che
cosa si trattasse, e ho fatto finta: “Ah sì, ah sì”. E poi guarda che putanada
è saltà fora con Arlecchino, eccetera eccetera. Però, a parte il fatto della
fortuna, aver girato tutto il mondo, aver portato in giro un altro spettacolo
meraviglioso…
Mazzarella: Un altro spettacolo irripetibile, Arlecchino.
Mauri: …sono convinto che, se il Piccolo Teatro avesse avuto, in quegli
anni, la forza economica di portare in giro per il mondo El nost Milan, El nost
Milan sarebbe in giro ancora adesso come l’Arlecchino. Questa è la mia
convinzione.
Mazzarella: Ecco perché bisogna riconciliarsi con Milano rifacendo El nost Milan.
Milano è stata offesa, ferita, dimenticata dal fatto che sembra che il dialetto
sia una cosa di serie B, poveracci. Io una volta mi incazzavo, adesso no, provo
una malinconica collera verso ‘sta gente, anche perché io, invecchiando, ho
peggiorato moltissimo. I miei figli, no ho solo cinque, mi dicono sempre che io
invecchiando fra il pensiero e la parola non metto più la dogana del buon
senso. Son talmente al di sopra delle miserie che mi va ben inscì, non cambio
neanche se m’ammazzano, mi va benissimo. Io sono uno zingaro, un irregolare,
uno che ha fatto sempre quello che ha voluto; difatti la ricchezza è quella lì:
mio figlio, l’altra sera, proprio mi rimproverava perché io mi son lamentato,
ho detto: “Tu guarda quello lì” - accennando uno in televisione - “alla mia
epoca non entrava neanche dalla porta di servizio, adesso m’ha dit che guadagna
quater miliard all’anno - in un ann che guadagna quel che num em minga guadagnà
per tuta la vita” E allora mio figlio mi ha detto: “Papà, ma devi calmarti un
attimo perché guarda, tu sono quarantacinque anni (per non dire cinquanta) che
fai quello che vuoi, dove vuoi, quando vuoi, se hai voglia, se ti gira, per
quanto tempo, e in più hai mandato a dar via il culo a tutti i potenti
d’Italia, sei tu che sei ricco, quello è uno che ha i soldi” El g’ha rasun lü.
Però è bello.
Mauri: Come hai fatto… Quello che mi chiedo è come hai fatto a fare un
figlio così intelligente. Mistero! Per me l’è minga too.
Mazzarella: Ma pensa, questo è il peggiore. Può darsi benissimo perché io ho tre
mogli, lo sai.
Mauri: Appunto.
Mazzarella: Ho avuto tre mogli, sia chiaro. Ne ho una sola, perché la mor no
oltretutt, questa.
Mauri: Mai, le ultime non muoiono mai.
Mazzarella: La g’ha vent ann meno de mi, cume la fa a morì. Pensate, io ho una
figlia di quarantasette anni e una moglie di quarantanove, perché la mia prima
figlia – la prima è una figlia, è una femmina, il maschio ne ha
quarantaquattro, son della prima moglie, dalla seconda non ne ho avuti, son
divorziato, la prima è morta – e chesta chi la mor no neanca a piangere. Io ho
tentato di cambiarla con due da venticinque, ma fa niente. Adesso posso
raccontare io come sono arrivato a fare El nost Milan? A lei non è che
dispiaccia?
Acerboni: Anzi.
Mazzarella: Perché ha parlato un bel venti minuti, tanto eh.
Mauri: Era lì con l’orologio in mano.
Mazzarella: Noi, in genere, non permettiamo mai che gli altri parlino molto. Con
gli altri normalmente fanno una fatica a infilare le loro parole fra le nostre;
invece lei l’abbiamo concesso perché ha la barba.
Mauri: Ma non ce l’ha fatta.
Mazzarella: Io avevo già fatto di Bertolazzi Il
focolare domestico e La zitella.
Intanto che facevo Il focolare domestico
con Puecher, Strehler una sera è venuto a vedere lo spettacolo e dice: “Mi
piacerebbe che venisse a fare El nost Milan”. Mi fanno questa proposta, però il
cast era pronto già e io ho detto, molto candidamente: “Io per venire a fare El
nost Milan al Piccolo Teatro, anche se c’è una parte di dieci parole,
l’accetto”. Ed è stato così. Io ho provato il primo giorno facendo una parte di
dieci parole: il giorno dopo facevo uno dei protagonisti. Forse perché mancava
una figura, non so; è stata anche la mia una fortuna. E poi dopo mi sono
innamorato di tutto quello che era lui e di chi era circondato, perché qui non
è che lui aveva delle persone qualsiasi, non solo come attori, attrici, ma come
tecnici… tutto qui era tutto perfetto. A qualcuno dava fastidio, perché Milano
era sempre prima, ghe nient de far. I più grandi spettacoli del mondo li ha
portati in giro lui, sono nati qui, su queste tavole: qualcuno non l’ha mandata
giù. E lui ne soffrì moltissimo. Poi diventammo molto amici, anch’io ero molto
amico di Giorgio. Gli ultimi anni, voglio dire, gli ultimi quaranta giorni un
po’ felici li ha passati con me a Uscio. E’ venuto a Uscio a curarsi un attimo,
siamo stati quaranta giorni insieme e lì ho sentito tutte le sue angosce, le
sue amarezze. Tu pensa, noi che l’abbiamo conosciuto, come si fa a dagh del
ladro a Giorgio. Io penso molto candidamente che Giorgio avrebbe sperperato
l’eredità di sua madre, se ne avesse avuta una, per metterla qua dentro. Ti
ricordi a Parigi quando si incazzò e disse – vedendo la cabina di regia di
Parigi: “Perché io a Milano non ce l’ho?” Giorgio non ha avuto figli: quest chì
l’era el so fioeu, e i figli si viziano anche, felici di viziarli. E lui questo
teatro l’ha viziato, e ha viziato anche noi, perché dopo averci mandato a letto
alle cinque di mattina, lui s’è fermato a farsi l’albero di Natale per il
giorno dopo. Ti ricordi? “Il vostro torturatore”. Al debutto di Parigi, alle
otto e mezza, alle sette e mezza io avevo una febbre a quaranta e due, una
banale influenza, e lui è venuto nel mio camerino el m’ha dit: “Sospendiamo”.
“Ma te se matt? Sospendiamo. E’ una vita che siamo qui a tribolare… dammi un
antigrip…”. E ho bevuto questa… come la nostra Aspirina, quel che l’è, e un
bicchiere di vino brulè; dopo mezz’ora sentivo l’acqua che usciva dalle scarpe,
però era tutto il sudor che andava via, mi stavi ben; lui era fra le quinte,
era attaccato qui: “Come stai?”. “Ma sto bene Giorgio, sta tranquillo”. Dopo un
certo punto, come si apre il sipario c’è il Tivoli, no?, i francesi, che
avevano senz’altro letto la storia - perché sono molto più preparati di noi,
perché leggen prima, s’informano prima - a un certo momento lui mi dice: “Non
ridono”. E io, da quella faccia di merda che sono: ”Per forza, non sono ancora
uscito io, come fanno a ridere?”
“Perché?” “Perché adesso io esco, prendo lo stesso applauso che prendo
quando esco a Milano”. Difatti, alla prima tiritera del Dundina, vien
l’applauso.
Mauri: Ragazzi, c’era Strehler che diventava matto: come entrava il Dundina
in scena: “Come fa? Ma come fa? Ma come fa?” - era bravissimo, quindi non era
una disperazione - “Come fa a fare quella camminata? Ma è straordinaria! Ma
guardalo, guardalo!”. E infatti aveva una camminata… Alla fine glielo ha
chiesto: “Senti Piero dimmi come fai a fare questa camminata?”. Cuntegliela su
ti: come facevi? come facevi?
Mazzarella: Mettevo dentro, in ogni scarpa, du ciucchin, sapete cosa sono i
ciucchin? Le castagne secche. Avevo un po’ le piaghe, ma se faseva fatica a
camminà e la camminata era perfetta.
Mauri: Quando un attore arriva a fare ‘ste cose…
Mazzarella: Io volevo raccontare solo questa cosina qua, perché ci tenevo: è un
pezzo de El nost Milan. Che tu puoi entrare quando vuoi, non è che voglio
assumermi l’onere.
Mauri: Io esco.
Mazzarella: Voi sapete che nel secondo atto de El nost Milan, nelle Cucine
Economiche, ci sono tre momenti d’amore. Il primo amore è quello fra el Ceser,
che facevo io, e la Bigetta, che la faceva la Borgo, ed è la storia di questo
Ceser che è un impiegato del gas che potrebbe anche evitare di andare a
mangiare alle Cucine Economiche, perché el ga el so tuscan, el sol culet bel
bianc, la sua valisetina per fa i cunt, ma va a mangiare lì perché a una data
ora arriva la Bigetta. E lu la ghe piase chela dona lì, ma gli piace, non le
metterebbe mai una mano sul sedere: le piace proprio così, perché è piena di
luce, di povertà, ma è solare. Difatti, quando sono seduti vicino, le parla del
so marì, lu de la so miè; però quando lei si alza e se ne va “Ciao biscela”
questo la guarda, la saluta e poi dice: “Ecco, adess andà via le andà via anca
il sul”: quindi un amore pulitissimo. Più avanti c’è un altro tipo di amore:
l’amore tra questi due, marito e moglie giovanissimi, che dopo pochi giorni di
matrimonio son già lì a mangiare alle Cucine Economiche. E difatti le la vor
mica venir denter. Lu ghe le dis: “Dai ven denter”. E i poveri, che stanno
voltandosi indietro, si accorgono che sono due giovani e hanno un grande
sorriso, la famosa solidarietà della povera gente. Allora questi qui entrano,
lei la se setta giò a cap tavula e lui, con le monetine, va a prendere due
tazze di minestrone. Ghe ne mett v’ona davanti a le e v’ona davanti a lu, e le
la mangia no. “No, vori no” e lu l’ghe dis: “Che culpa ne ho mi se no trovo
minga de lavurare”. Dopu poc di: “Sen già mo chi, ma se trovi no a levi su la
matina...” C’è un grosso sfogo dicendo: “Non è colpa mia se non trovo da
lavorare”. E piange, piange nella minestra. Allora lei, che si è accorta che
forse ha un po’ esagerato nella sua violenza, la ghe cerca una man, le mani si
stringono, si guardano in faccia: piangen, e poi riden, e mangian la minestra.
Le mani hanno messo a posto tutto. Normalmente sono anche i piedi, perché quand
du vann in lett, da un se gira per il cu e quel alter de là, dopo un po’ i pe
se tucchen e fan la pace. E poi c’è il terzo amore. Il terzo amore è quello
della Nina e del Togasso, che è un amore sporco, un amore ibrido, perché lei va
a battere per lui, arriva a fare questo. Qui Valentina e il povero Tino erano,
di una, non so, una bravura e poco. Non sono mai riusciti ad andare giù a
vedersi quanto erano bravi, in quell’ angolino lì. Quella ghe diseva, con
questo ditino per aria: “L’è l’amur, sta quieta che l’è l’amur”. E lì partiva
un bacio di quelli veri, dopodichè c’era un silenzio e a questo punto Giorgio
non era contento di questo silenzio, mancava un rumore. Pensate a quante cose
aveva da pensare quell’uomo lì per mettere su uno spettacolo del genere. Invece
mi s’eri proprio settà giò davanti al pubblic e avevo pensato: “Forse io sento
che manca questa cosa qui” ma mica perché son pussè inteligent de lu, Perché mi
g’ho da pensà alla mia roba, lu ghe n’ha domila, ma lui passando davanti,
intanto che dirigeva – Parigi, eh – mi guarda e guardandomi io capisco che lui
ha capito che io ho capito. E allora g’ho dit: “Se la rifacciamo un’altra volta
io tento una cosa”. E allora cos’è: durante questo bacio, dove c’era un
silenzio, g’avei davanti il biccier vuoi del vin e il quartin. Io invece di
versare il vino a una data maniera – adesso questo qui è sbagliato perché è
stretto di boccale – lo versavo dall’alto, e versandolo dall’alto faseva “plu
plu plu plu plu plu” e facevo durare questo rumore quanto durava il loro bacio:
il loro piacere e il so piacere del vino. Lui lo trovò molto bello e infatti si
fece sempre così. Una grande gioia: “Sì sì va bene così, mostro, sei un
tedesco, perché non sbagli mai”. Te se ricorda.
Mauri: C’era un altro grande amore, nelle Cucine, ed era l’amore per il
passato glorioso di un reduce del ’48, delle barricate, ed era questo che
faceva il grande, enorme Pampurini. Purtroppo abbiamo vissuto anche noi il
reduce quando torna: vuole solo raccontare le cose che ha vissuto, non gliene
frega più niente a nessuno. E la stessa cosa veniva rappresentata lì.
Mazzarella: E sulla divisa della Baggina portava la medaglia lui.
Mauri: Certo, la medaglia al valore. Come trovava qualcuno, e allora c’era
solo uno spazzacamino – che faceva Roberto Pistone – che lo stava a sentire; e
lui cominciava con questa voce: “Figuret dunca Gasparin”. E lì che stava a
sentire c’era anche il Feldman che faceva il vetturino: intervieni tu a fare il
vetturino, la carossa e el carrett. Non te la ricordi? “Figuret
dunca Gasparin…”.
Mazzarella: Forse forse.
Mauri: “Che nun s’erem de dre d’una carossa larga minga pussè de sto tavol”.
Mazzarella: “Per mi l’era un carrett”.
Mauri: “Allura l’era un carrett”. “Ah, una carossa!”. “Un carrett!”.
Mazzarella: “Un carrett!”.
Mauri: “Una carossa!”
Mazzarella: “L’era un carrett!”.
Mauri: “Ho detto una carossa!”. “E va ben, va ben…”
Mazzarella: “L’è una carossa”. C’era
questo grosso gioco, adesso non me lo ricordavo più.
Mauri: No, finiva così: “E va ben, va ben, va ben, ste calmo. Era una
carossa. Per me l’era un carrett”.
Mazzarella: E’ vero, è vero.
Mauri: Era stupendo, stupendo. E quando entrava la guardia – che faceva il
Montini – il tredes de taroc, che era la guardia comunale…
Mazzarella: Che vuol dire la morte il tredes del taroc.
Mauri: …che faceva il suo giro e
come sentiva “E allora nun” gli austriaci sparavano “E allora nun a conti i
sass” “Vuè se scalda, eh, l’eroe della sesta giornata”, e questo diventava
matto.
Mazzarella: Madonna, quando mai.
Mauri: “Cos’è? Eroe della sesta giornata a mi? Sa no che mi g’ho il passaport in regula”.
Chissà cosa volesse dire con questa roba.
Mazzarella: Perché lui era un eroe di tutte e cinque le giornate, non della
sesta. Ma il più bello, scusami, ti ricordi quando lui mangiava e il povero
Biraghi ghe diseva: “Ei lu, se mangiand il minestrun, el trova denter una quai
cudega, me le daga pure a mi, se ‘l fa fadiga
a mastegarla”.
Mauri: “In sta minestra se trovan denter i marbic de cuteghe, ghe disi mi”.
S’incazzava sempre.
Mazzarella: “Mi g’ho una bocca che mastega… i biasci anche i sassi”. Che bello,
che bello.
Mauri: “Minga donà la cudega, anca un purscel intreg mi se mangi”. E
s’incazzava sempre, costantemente. Ma di una bravura, di una verità.
Mazzarella: Noi stiamo parlando di queste bravure singole. Ora, queste bravure
singole, messe tutte insieme da quel mostro che era il nostro Giorgio, pensate
cosa veniva fuori. Perché ne parlavamo prima di venire in palcoscenico: la
magia di Giorgio non era una cosa qualsiasi, era quella di capire quello che
voleva la gente lì, perché lui ha sempre lavorato per quelli seduti lì. Culturalmente
forse c’era qualcuno che poteva anche essere più affascinante in maniera
dialettica, ma quella gente lì, quando si alzava dal tavolo delle prove, si
cominciava ad andare in piedi e muoversi, non avevano più le idee tanto chiare.
Invece lu l’incuminciava alora. Lui ne El nost Milan faceva tutte le parti,
uomini e donne, tutte.
Mauri: Pensate che, raccontavo appunto prima di venire giù, c’era un grosso
otorinolaringoiatra, che ho conosciuto per motivi di corde vocali, e mi diceva:
“Ma sa che ho scoperto una cosa, Mauri? Secondo me, tranne Strehler, sono tutti
registi” e a detto una grossissima cosa. Perché Strehler non era solo un
regista: il regista possiamo farlo tutti. E la poesia? Era un poeta. Quindi
sintesi e chiarezza. Perché nessuno mai è uscito da questo teatro chiedendo:
“Ma cosa voleva dire quello lì facendo così?”. Era tutto chiaro. Anche ai
poveracci ignoranti, come dicevi tu prima, quelli che hanno solo i libri,
perché il teatro è un’altra cosa, non è una questione di libri, letti o non letti,
in biblioteca. E’ una questione di sensibilità. E’ questa la magia del teatro.
E’ questa grossa cosa che capita a noi recitando: facciamo il gioco dei
bambini, tentando di far diventare bambini l’intera platea, per giocare
assieme.
Mazzarella: E’ logico, ma è la cosa più difficile.
Mauri: E’ la cosa più difficile.
Mazzarella: La cosa più difficile è parlare semplicemente. Coloro che adoperano…
i funamboli della parola, i re dell’arzigogolo, del dentro e fuori, del
politichese, la loro magica invenzione è quella di parlare senza dire niente.
Ma parlate un po’ con i bambini: al terzo perché, che cosa rispondete? Al terzo
perché! Ecco perché bisogna prenderli ad esempio. Il pubblico è un bambino, un
bambino che ti da tutto il suo amore, specialmente quando s’accorge – e da giù
lui ha delle antenne speciali – che tu gli dai tutta la tua bravura, volontà,
onestà soprattutto. Io ho lavorato – adesso sto meglio perché non fumo più – ma
io ho lavorato in condizioni di salute disastrose. Una sera c’è stato un signore
del pubblico che si è alzato e mi ha detto: “Mazzarella, sel fa fadiga parli
pure più adagio, non ha importanza sa”. Ragazzi, quelli lì sono atti d’amore
incredibili e solo il pubblico è capace di queste cose. Ma non lo devi mai
fregare, mai mancare di rispetto, mai pensare: “Stasera ghe poca gent” –
Stasera ghe poca gent, bisogna lavurà mei! per punire quelli che non ci sono,
perché loro sono qui, è questa la faccenda. E’ che purtroppo noi, la nostra
razza, fra poco, fra un venti trent’anni, chiudiamo anche noi. Siamo più
giovani del Papa, fortunatamente. Lui non si sente vecchio, di conseguenza nun
andè all’asilo duman matina. E ci va benissimo, viva ancora cento anni questo
Papa meraviglioso.
Mauri: Ma a te, te lo ha detto Dio che non sei vecchio?
Mazzarella: Non ancora, eppure io gli parlo assieme tutte le sere. Io sono un
laico sfrenato, sono un nemico dell’istituzione, però io…
Mauri: Entriamo in religione.
Mazzarella: No no, io non voglio entrare…
Mauri: Ma entro io, per entrare ancora in argomento. Ti ricordi l’inizio del
terzo atto? I due vecchi: la Zanoli e la Revel.
Mazzarella: Madonna cos’erano.
Mauri: Un altro fenomeno: la Zanoli. La Zanoli riusciva a fare una voce nel
primo atto… Il personaggio era Coo d’oss, e aveva a tracolla una bestia di una
macchina con le lampadine, ed era la macchina della scossa elettrica. Ed era
una macchina realmente esistita, dove gli uomini andavano a mettere la mano,
l’operatrice girava la manovella per vedere quanto resisteva. Il suo grido era:
“Scossa elettrica, giovanotti, per provare la forza virile dell’uomo”.
Mazzarella: E di dietro la macchina se vedeva il Togasso e diceva: “Vuè, quand te
ghe nient de fa, tratta anca ti sul foc con la to machina, te capì Coo d’oss”.
Mauri: “Oh, perché lu le fort, manstraisc del loffi, come disem nu”.
Mazzarella: Manstraisc del loffi, che è una frase gergale, vuol dire “ammalati di
polmoni”: allora la tisi era una malattia di moda, quasi tut i locch ghe
l’aveven: beveven e fumaven. Il mal di petto: manstraisc del loffi. Era andato
a cercare anche queste cose qua. C’era dentro tutto.
Mauri: Ragazzi, non so se vi siete accorti: ho tentato di finire un
discorso… Io perché non sono – lui non ha mai osato chiedermelo – ma mi sarebbe
piaciuto così tanto andare nella sua compagnia, ma dopo mi sono trattenuto. Non
sono andato mai a chiederglielo. Figurati se io riesco a fare una vita con
quello lì, che ti interrompe anche quando reciti. Ma siamo matti? Lassemela
finì la storia della Maria Zanoli.
Mazzarella: Sì, ma lasciami dire perché io non potrò mai prenderti nella mia
compagnia: perché tu sei talmente bravo e che costi così tanto che non posso
pagare uno scritturato come te.
Mauri: La prima cosa è vera, la seconda no, ma fa niente.
Mazzarella: No no, non posso pagare uno scritturato così bravo.
Mauri: Allora. La Maria Zanoli l’anno dopo, alla ripresa, arriva, proviamo e
la Maria Zanoli comincia: “Scossa elettrica, giovanotti…” “No Maria, è più bassa” “lo so Giorgio, lo
so” “E allora” “Scossa elettrica, giovanotti…” Insomma, l’ha tormentata e alla
fine la povera Maria, con in mano la macchina, ‘l g’ha dit: “Insomma Giorgio,
lascia un po’ di tempo: devo ritrovare il maschio che s’è perso in me”. C’era
questa apertura nel terzo atto dove la Zanoli faceva un altro personaggio di
una beghina agli asili, ai vecchiuni, dove davano da dormire alla povera gente,
gli Asili Notturni, là su una panchina con un’altra vecchia, e diseven il
rusari; e incominciava: “Ave Maria gratia plena… E la Gervasona?” “E’ una
schifusa!” “Ave Maria, gratia plena…”. E cominciavano a zabettare tra di loro e
intercalando con questa Ave Maria del rusari. Era una cosa… con l’apertura del
sipario. Era magico quell’inizio.
Mazzarella: Poi entrava la … con la erre…
Mauri: La direttrice.
Mazzarella: Perché alle sei dovevano uscire.
Mauri: E poi ha fatto la…
Mazzarella: La Bigetta.
Mauri: No. Quel personaggio lì l’ha fatto la… Dai, che l’hai avuta per tanti
anni. La… la… la… Una donna, ai tempi giovane, che poi ha avuto un bambino… Non
si ricorda più niente.
Mazzarella: Ho recitato trecentosessanta commedie.
Mauri: Ma dai, l’hai avuta per anni al Gerolamo.
Mazzarella: Ma ‘se vol dir. Al Gerolamo ho fatto centotrenta commedie. Me ricordi
pu mi. Mi ricordo lei perché era affascinante. Sai che ha lavorato con
Petrolini lei, la Rainer?
Mauri: Non la Rainer. Dici delle cose che non stanno né in cielo né in
terra. Cosa c’entra la Rainer?
Mazzarella: Ma allora non parli della Rainer?
Mauri: No. Quella che faceva il personaggio della direttrice, dopo l’ha
fatta quella attrice brava, molto carina ti dirò, che ha fatto un sacco di
radio a quei tempi.
Mazzarella: Ah, ma li ha fatti con me anche adesso, aspetta. La Leda Celani? No
no.
Mauri: Leda Celani, Leda Celani.
Mazzarella: La Leda Celani? La Leda ne ha tre, si vede che ha preso gusto a fare
il primo, di figli. Ha lavorato con me l’altro giorno, in Svizzera. No gioia, è
bravissima ancora. La Raggio stupenda, la Leda.
Mauri: Penso che voi tutti abbiate visto El nost Milan. Ma immaginate un
attimo – e lì non c’era niente da capire, c’era solo da ascoltare e vedere
queste due figure, nella nebbia e nel buio, con gli ultimi lumini della fiera
che si spegnevano, e vedere l’incontro fra il Togasso e il Dundina. Ti ricordi
che finale?
Mazzarella: Madonna, no dit nient.
Mauri: C’era addirittura un duello politico…
Mazzarella: A colpi di sigaretta.
Mauri: No, prima a colpo di fischio.
Mazzarella: Sì, prima sì. Ma finiva con la sigaretta.
Mauri: Perché uno cominciava con
Mazzarella: “Ti te me rughet con quel siful lì, eh”
Mauri: Silenzio e queste due sigarette che si accendevano nel buio. Cos’è
che fischiettava l’altro?
Mazzarella: La marcia reale.
Mauri: No, prima era la marcia reale.
Mazzarella: Faceva l’”Avanti popolo”?
Mauri: No no, non era quel periodo.
Mazzarella: Non era così allora. Erano due volte.
Mauri: Aspetta, l’Inno di Garibaldi.
Mazzarella: E’ vero, è vero.
Mauri: Qual era?
Mazzarella: In principio…
Voce dalla sala: “Si scoprono le tombe”.
Mazzarella: “Si scoprono le tombe”. La seconda volta “Si scoprono le tombe”. Ma
c’è il motivo: lui ha scoperto che quella là mi dava la dritta sul suo conto.
“Ti rughe con quel siful”, cambiava ghe
faceva la Marcia reale. Questo non sa più cosa dire. Ancora. Quattro colpi di
sigaretta. Poi butta a terra la
sigaretta. Intanto che spegneva andava via e diceva: “Cià cià andem se non una
quai volta ghe porti via fa fa fac vedè quant in i ur”. Si chiudeva il sipario.
Lui col mantello. Si chiudeva il sipario. Magico.
Mauri: Era una cosa da brivido.
Mazzarella: Cinema, sembrava cinema.
Mauri: Senza parlare poi dell’accoltellamento del Togasso.
Mazzarella: Tra lui e il Rinaldi.
Mauri: Tra Rinaldi e Carraro. Dove c’era questo trucco cinematografico:
sembrava che a soccombere fosse il vecchio invece, mentre il vecchio si alzava
tutto tremante, spaventato perché aveva ucciso il Togasso, il Togasso che si
piegava in due sul tavolo. E poi c’era la corsa attaccandosi alla ringhiera.
Mazzarella: Pensate che Rinaldi aveva un occhio solo ed era malato anche quello.
Pensate che rischiava moltissimo a prendere un colpo di perdere la vista. E
allora io l’aspettavo all’uscita della sua corsa per brancar. Guarda che era
così, era un macigno d’uomo. E lu ghe diseva agli alter che eran prima della
corsa: “L’è là il Massarella, l’è là il Massarella?” Perché dice: magari s’è dimenticato.
E quando lui se n’è andato dal teatro, che è andato a Nervi dove aveva una
casa, m’ha scritto una lettera che mi ha fatto piangere, perché mi diceva: “E
mi ricordo ancora di Parigi, quando io guardavo dall’altro lato della quinta a
vedere se lei era là. E lei, come un figlio premuroso, era là ad aspettarmi. Le
voglio bene. Emilio Rinaldi”.
Mauri: Era, fra queste tante bontà, era anche un mascalzone, perché proprio
a Parigi ha mandato il Feldman, il povero Feldman, a cercare il mare.
Mazzarella: E la colpa è stata sua che glielo ha rivelato. Adesso vi spiego. El
me dis: “Piero” Gu dit: “Rumpum pu i ball. Te se semper insema a mi. Nanca se
fusset la mia morosa” “E ma mi su no il frances: mi mangi tus cos no inscì“
“Vabbè, ordino io: soupe d’onion” Ed era zuppa di cipolle. “Allora sei anche
una carogna”. El di dopu gu dit: “E stam no sempre indrè che mi gu na sbarbada,
per piacre” Dis: “Duve a l’è ca vo?” “Sei a Parigi: vai al porto, vai al mare,
che è bellissimo” E lu tut el di a caminare. Verso sera l’incontra il Mauri che
‘l ghe dis: “Ma duve a l’è che te ve?”
“Ma è tuta la matina che cerchi el mar” E lu, sensa nanca aspettà, g’ha dit:
“Te l’ha detto Mazzarella?”
Mauri: Era l’unico, in compagnia, che poteva fare uno scherzo del genere. La
sua bontà, aspettava Rinaldi. Sì, aspettava Rinaldi.
Mazzarella: Che meraviglia. Poi lui ha lavorato anche dopo con me al Gerolamo, e
mi ricordo che sulla scorta di questi scherzi, mi diceva: “Fam no di trucc, per
piacere”. Allora nei Brandinei c’era un punto in cui lui faceva un notaio e
aveva tutti i fogli scritti, perché doveva leggere sto testamento, e li aveva
numerati nella cartelletta. E mi, la sera prima che l’andasse in scena, gli
aveva mess a post lu, li cuntrullava pu, ghe cambaivi tuti: vun, set, nov, vundes,
tri. E lui guardava fra le quinte…
Mauri: La sua infinita bontà, hai capito… C’era un altro personaggio che qui
vorrei ricordare, ed era – oramai l’è al cimiteri; a guardà la locandina, hin
mort tut – il povero Fusari, che era il cuciniere delle Cucine Economiche.
Strehler ghe diseva: “Tu non ti preoccupare delle battute: ti te de sigutà a
bruntulà”. Ma star lì a sentire quello che diceva… parlava con le padelle, con
le posate, con tuc. Non lo vedeva nessuno, perché era dentro il gabbiotto: di
tanto in tanto veniva fuori con la testa da uno sportello perché è da lì che
veniva fuori la pacciatoria. C’era – e questa era un’invenzione proprio di
Rinaldi – della monetina. Andava, prima dell’incontro col Togasso che poi
uccide, andava a trovare forza andando a bere qualche bicchiere e si sentiva:
“Cià , un biccier de lucinina” grappa, si chiamava lucinina “e adess un
sottovoce” ed era sempre la grappa.
Mazzarella: Sottovoce perché era proibito bere grappa prima di un dato orario, si
chiedeva sottovoce.
Mauri: C’era anche un terzo modo per chiamalo. Ma ogni qual volta che andava
a comperare questo bicchierino di grappa metteva, c’era un pezzo di marmo,
questo centesimo o due, quel che l’è, il sesin, tac si sentiva.
Mazzarella: Sul marmo.
Mauri: Questo a proposito del discorso che faceva, del rumore che lui ha
trovato nel versare…, era pieno: l’inizio del secondo atto era un concerto di
bicchieri e posate.
Mazzarella: E’ verissimo.
Mauri: Ma veramente un concerto. Beh, e lui aveva trovato questa tac si
sentiva, in questo silenzio pretagedia. Poi altra ordinazione, poi la terza,
fin quando trova il coraggio di chiedere: “Te vist el Togasso?” “Sì, l’è là con
di amis” E lì avviene l’incontro e si scannano. Il Fusari una sera, mette fuori
una mano e, approfittando della quasi cecità del Rinaldi, non si sente più il
clic, perché la moneta sulla mano del Fusari non si sentiva più. Era di una –
chissà se cattiveria o se era perché tutti gli attori sono invidiosi. Anni
dopo, perché ha lavorato parecchio Fusari perché era un bravissimo attore, non
per le parti grosse, ma era – a parte il fatto la sua figura era straordinaria,
veramente caratteristica – nel Goldoni e le Sedici commedie nuove di Ferrari,
che è stato messo qualche anno dopo in scena, c’era il Tarascio, che ha fatto
nella prima edizione quello che facevi tu.
Mazzarella: Il Dundina.
Mauri: E il gasista anche.
Mazzarella: Credo, perché sono due parti abbinate.
Mauri: Tarascio diceva, faceva a me da capocomico: “Candele candele” e lui
faceva il suggeritore, questo vecchio suggeritore con la candela “Accendi,
accendi le candele” e dopo un po’ se vultava e diceva: “Poche eh?”. Una sera il
Fusari… Tarascio: “Accendi le candele”. Sai un attimo prima – il Fusari:
“Poche?”. Bisogna conoscere anche il personaggio Tarascio, meraviglioso attore:
l’avrebbe ucciso, ma veramente.
Mazzarella: Sono le piccole malignità - che lui l’avrà fatto per giocare - delle
antipatie. Io ho lavorato con un’attrice, di cui non posso dire il nome, alla
quale forse stavo sulle palle, non so per quale ragione, fatto sta che non mi
poteva vedere. Allora, lei aveva una tirata alla fine d’un atto, dove
automaticamente prendeva l’applauso, sempre, tutte le sere, fino a quando io ho
deciso che non l’avrebbe preso più. Perché io dovevo ascoltare quello che
diceva lei così, e lì veniva l’applauso. Io un attimo prima che lei finisse
l’ultima gamba della “a”, un attimo prima facevo… L’applauso ‘l gh’era pu, era
un tempo in più.
Mauri: S’imparano tutte. E’ chiaro che il mio grande maestro è stato
Strehler, ma io ne ho avuto un secondo, ed è stato Checco Rissone. Checco
Rissone proprio ne El nost Milan faceva il Burtulin, parlava in bergamasco,
quello della Giostra delle barchette, come dopo aveva sostituito De Toma. C’era
un attore bravissimo che era… pochi attori milanesi veri ha trovato Strehler
nella prima edizione, e quindi s’è arrangiato anche con gli attori che aveva in
compagnia, ossia Tarascio e Matteuzzi – Matteuzzi era bolognese, tant’è vero si
prendeva sempre in giro perché non riusciva a dire… la battuta era: “Duman
matina meti fora” perché aveva portato via il Turdulun e aveva la baracca del
gnam gnam… e “duman matina meti fora” e qui la presa in giro – però era
talmente bravo che all’uscita prendeva l’applauso. E allora Checco mi dice:
“Scommetti con Matteuzzi?” dico: “Che
cosa scommetti?” ciappavo duemila franchi al dì, mancava de scummet e perd.
Dice: “No, vai tranquillo, vai tranquillo, caso mai te li do io. Scommetti che
stasera non prendi l’applauso?” Vu là e dis: “Scommetti che stasera non prendi
l’applauso? Stasera non prendi l’applauso”. “Va bene, un caffè” “No, io bevo un
bicchiere di vino” perché alura il cafè bevevi minga, bevevi il biccier de vin.
Mazzarella: Invece adesso hai continuato.
Mauri: Non prendeva l’applauso. E io bevevo il bicchiere di vino. E non
m’ero mai accorto perché non ha fatto le cose sue. Al momento opportuno lui
chiudeva la fiera, la lampada che era su in alto con una catena, scendeva:
bastava questa lampada che al momento opportuno scendesse, l’applauso non
scattava più. E poi mi diceva naturalmente la sera dopo: “Stasera di che lo
prende, scommetti”. L’altro, oramai disperato, scommetteva e perdeva perché
Rissone non faceva cadere la lampada al momento opportuno. Queste cose qui si
imparano da questi mostri. Io ero al primo anno.
Mazzarella: Cosa succede, quelle spiegazioni sono tutte giuste, son tutte… però
se noi adesso le vogliamo vagliare, vuol dire che in ognuno di noi, di noi
attori, c’è un po’ la voglia di benedirci e ucciderci in alternanza. C’è
qualcosa di magico e di diabolico nello stesso tempo.
Mauri: Insomma, il successo degli altri ci da fastidio, diciamo la verità.
Mazzarella: Ma poi io adesso… a prescindere dal successo. Voi avete mai pensato
che noi siamo quelli che recitano la stessa sera che muore la loro madre? La
mia mamma le abbiam fatto la camera mortuaria su in palcoscenico, perché aveva
passato la vita in teatro. Alle cinque del pomeriggio, quando è finito il
funerale, hanno sbaraccato il palcoscenico, noi abbiamo recitato la sera
stessa. Perché a noi sembra che la cosa più importante sia quella di farvi
capire che noi continuiamo a fare quello che piaceva a te, che piace anche a
noi. Mia moglie è morta alle sette di mattina in un incidente di macchina, io
sono andato a Bologna a riconoscere la salma, son tornato a Milano, sun andà a
far spettacul. Ma non è incoscienza, siamo fatti così, cioè: noi non siamo come
gli altri, siamo magari peggiori, ma non come. Non siamo come gli attaccapanni
della Standa, siamo diversi. I nostri amici preti, che avevano capito ste cose…
Mauri: Via dai cimiteri.
Mazzarella: Via, fuori. In terra sconsacrata, fuori porta in terra sconsacrata
erano sepolti i commedianti. Perché loro mica scemi, hanno capito tutto, eh.
Noi si precorreva i tempi. Insomma, l’Illuminismo è arrivato dopo.
Mauri: Scusa, scusa, siccome dobbiamo anche lasciare liberi, se qualcuno
volesse fare qualche domanda, qua e là, possiamo rispondere e poi accomiatarci,
si dice così?
Domanda: Ci sono dei giovani attori che stanno… Voi vivrete per trent’anni, ce
l’avete garantito, quindi noi ci contiamo e godremo della vostra
Mazzarella: Grazie, le lascio qualcosa da bere pagato.
Domanda: Non bevo. State preparando dei giovani attori che possano… per
esempio, El nost Milan: i miei studenti, i nostri studenti, potranno vederlo o
ne sentiranno soltanto parlare?
Mazzarella: No, no, potranno vederlo benissimo.
Domanda: Lui dice “el vedem pu, el vedem pu”.
Mauri: Ma quel lì l’è semper sta un pessimista…
Pubblico: La realtà le sta chi: adesso ci sono degli attori bravi, quasi tutti
bravi perché imparen… fanno il mimo, fan chi, fan là. Però mi è cinquant’ann –
ti me cunusci da semper – l’è cinquant’ann che vo a teater, i mostri i u vist pu. Adess gh’è
una bella media di atur ch’è bun di fa tanti rob ma insomma…
Mazzarella: Io sono molto… mi perdoni, io adesso vado via, vi faccio fare le
domande che volete. Io sono molto distante da questa faccenda che chi è bun de
far tanti rob, perché l’attore ad esempio non va confuso con lo showman,
capito. L’attore ha dei doveri, prima di tutto. I personaggi che un attore fa
sono tanti, e l’attore può considerarsi tale quando arriva a fare il San
Francesco d’Assisi il venerdì e Hitler alla domenica, per dire quanti
personaggi diversi si possono fare. I personaggi nascono dalla penna
dell’autore. Dobbiamo stare molto attenti agli attori che ogni personaggio lo
fanno diventare se stessi: non sono attori, eh?
Mauri: Ma non diceva questo.
Domanda: Io voglio sapere se si sta formando una scuola… io gli dicevo, mentre
voi parlavate e ci facevate sognare perché ci introducevate a qualche cosa che
apparteneva a voi, io mi chiedevo se i
miei studenti, ai quali parlo del teatro, vabbè, ai quali faccio un certo
discorso, e che sono qui, vedranno El nost Milan i miei studenti? Lo vedranno?
Avranno la possibilità di vederlo? State preparando degli attori che saranno in
grado di fare…
Mazzarella: Io non faccio l’insegnate.
Domanda: Dai, non mi prenda in giro.
Mazzarella: Giuro, io no, io non ho mai voluto insegnare, io.
Domanda: A preparare nel senso di tenerli in compagnia…
Mazzarella: Sì, quello sì. Da me possono imparare stando in scena, da me. Ma io
non ho mai insegnato niente a nessuno perché non sono in grado di farlo. Io non
ho mai scritto una riga.
Domanda: Sì, ma in compagnia ci sono…
Mazzarella: Come no, ma senz’altro,
senz’altro, ben vengano.
Domanda: Quindi progettate di fare…
Mauri: No, di fare El nost Milan adesso, non è il caso. C’è una cosa. Io che
insegno alla scuola di Strehler, il primo anno io insegno in milanese. Lui
dice: “Oh povera mi” però almeno una poesia, due, e qualche scena de El nost
Milan riusciamo a metterla su anche con
gente di Messina, per dire, in questi oramai dieci anni. Sono dieci anni che
esiste la scuola di Strehler. Questo proprio perché non si sa mai. La storia
del dialetto nelle scuole è cominciata molto tempo prima, inventata proprio da
Strehler e da Grassi, quando la scuola del Piccolo Teatro era quella che poi è
diventata civica, va bene, e lì eravamo io col milanese, poi c’era Pepe col
veneto e Sportelli per il napoletano. I tre filoni dialettali più importanti
nel teatro, insomma. Perché diceva che era giusto che imparassero anche a
recitare anche in un’altra lingua. Oggi si potrebbe dire, fatta l’Europa, è
bene che un attore sappia recitare almeno in inglese e in tedesco. Il francese
sta diventando una lingua morta.
Mazzarella: Ecco perché io non ho più voglia di fare niente.
Acerboni: C’è anche un’altra risposta che si potrebbe dare…
Mazzarella: Scusate, io vi lascio. Grazie di averci ascoltato. Anche perché, per
essere coerenti, io non sono mai arrivato in ritardo, ma non perché io sono
molto educato, ma soltanto perché mi darebbe molto fastidio che dicessero: “E
già, perché le lu ariva a quell’ora chi”. Io non voglio che lo dicano.
Mauri: Ciao.
Acerboni: Effettivamente dobbiamo chiudere. Ma c’è un’altra risposta, diciamo
così, un po’ poetica tra virgolette, che si potrebbe ascoltare dalle parole di
Strehler che legge un brano di Testori e che abbiamo scelto per chiudere questo
incontro, e che forse potrebbe essere anche, diciamo, una risposta a questa
domanda. Quindi, prima però di lasciare la parola a Strehler, a questo punto, volevo chiudere…
Mazzarella è appena uscito… ringrazio Gianfranco Mauri e l’Associazione Amici
del Piccolo Teatro che ha organizzato questo incontro. Io credo che Milano esca
bene anche da questo incontro. E’ stato piuttosto divertente, direi. Son venute
fuori parecchie cose assolutamente inedite, interessanti, che fanno capire che
cosa vuol dire fare uno spettacolo visto da dentro, e sono cose molto
interessanti. Bene, grazie anche a voi.
Strehler: Città, città questa? città ancora? Il maestro: ”Sì, città, città,
culla, tavola, letto, bara, eppure
sempre cara, madre nostra civile, riflesso di madre nostra corporale. Oh ti
saluto. Vale, sì, vale esser figli tuoi anche qui ed ora”.
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